Juventus e Soumahoro. Due casi diversi ma affini sotto un punto di vista ben preciso: il processo mediatico, che non risparmia nessuno e decide colpevoli e vittime prima ancora di varcare le soglie di un’aula giudiziaria. Una deformazione che Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, conosce bene, tanto da averci scritto un libro, dal titolo “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”. Un vero e proprio “manuale” di tutto ciò che non va nel legame, spesso perverso, tra giustizia e media e che potrebbe essere aggiornato praticamente ogni giorno. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello che riguarda il club bianconero, dopo l’inchiesta per la quale la procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio di Andrea Agnelli e di altri 12 dirigenti. E non mancano, su tutti i giornali, le intercettazioni sul caso, finite in pasto all’opinione pubblica senza alcun contraddittorio.

Professore, l’inchiesta sulla Juventus e la vicenda che coinvolge il deputato Aboubakar Soumahoro hanno generato un dibattito che si è subito trasformato in sentenza di colpevolezza. Un tipico caso di giustizia mediatica, come quelli raccontati nel suo libro. Quali sono gli elementi del processo mediatico in questi due casi?

Direi che sono casi molto diversi, perché uno concerne una narrazione mediatica che coinvolge direttamente i protagonisti della vicenda giudiziaria, l’altra solo indirettamente, essendo il soggetto solo un terzo “coinvolto” solo in ragione di un rapporto affettivo-familiare con l’indagata, e qui l’interesse pubblico è generato solo da motivi di opportunità (o sconvenienza) politica. In questa vicenda siamo, dunque, tecnicamente fuori dal perimetro della cronaca giudiziaria. In ogni caso, come sempre in queste vicende, le notizie riflettono solo ed esclusivamente la fase delle indagini preliminari, una fase dominata dalle tesi dell’accusa, dove le argomentazioni della difesa sostanzialmente sono assenti. Anzi: nel caso della Juventus, mi pare che le notizie principali - come di regola accade - siano tratte dall’ordinanza cautelare, atto adottato dal gip su richiesta dei magistrati inquirenti senza interlocuzione con la difesa, o come si dice, inaudita altera parte; più precisamente, sono notizie attinte dalla richiesta dei pm più che dall’ordinanza del giudice, che infatti ha rifiutato - da quanto si legge - di disporre le misure richieste. Chiaro che la prima vittima - insieme al diritto di difesa - è la presunzione di innocenza: gli indagati sono visti - nell’opinione pubblica - come presunti colpevoli, o come “colpevoli in attesa di giudizio”. L’esito della ricostruzione dibattimentale e del processo - persino l’eventuale assoluzione - interesserà poco o nulla, e la liquidazione anticipata dei diritti - onore e reputazione - non sarà mai risarcita.

Poi c’è il tema della pubblicazione delle intercettazioni telefoniche: cosa può dirci a riguardo?

Purtroppo è uno degli aspetti più deprecabili, perché la divulgazione e pubblicazione delle intercettazioni telefoniche trasforma quello che nel codice è un semplice mezzo di ricerca della prova, di fatto, in una prova agli occhi di chi legge, senza che quegli elementi siano stati verificati nel contraddittorio tra le parti, nel corso dell’istruttoria dibattimentale. Questo contribuisce a suffragare, nell’immaginario collettivo e nella pubblica opinione, il convincimento di colpevolezza, mentre il complesso degli indizi o degli elementi raccolti dall’accusa dovrà essere fatto oggetto di scrupolosa verifica nel corso del giudizio, specie a fronte di valutazioni tecniche particolarmente complesse - come sono sempre le valutazioni di bilancio - che dovranno essere fatte oggetto, presumibilmente, di approfondite analisi da parte di consulenti e periti. Nelle intercettazioni si usano spesso locuzioni gergali, approssimative, spesso esagerate ed enfatiche, o persino pure millanterie, che non sempre corrispondono alla realtà dei fatti, e che proprio per questo devono essere attentamente verificate, anche perché nella conversazioni telefoniche i profili tecnici raramente emergono nel dettaglio, o emergono solo in modo grossolano e sono diluiti in un linguaggio iperbolico.

In che modo queste degenerazioni possono influenzare il corso del procedimento giudiziario?

Purtroppo il rischio di condizionamento, a mio sommesso avviso, è significativo, perché tutta una serie di elementi che il giudice del dibattimento non dovrebbe conoscere vengono irrimediabilmente divulgati e possono contaminare la sua “verginità cognitiva”, la sua “virgin mind”, e francamente mi convince poco la tesi che ritiene il corredo professionale del magistrato togato uno scudo sufficiente a neutralizzare questi possibili condizionamenti, che spesso, peraltro, sono inconsapevoli, inavvertiti e subliminali. Tutto l’iter processuale, del resto, rischia di essere contaminato dalla diffusione di materiale “apocrifo”, perché raccolto unilateralmente dagli inquirenti. La diffusione di queste informazioni può anche inquinare, ed accade spesso, il corredo di ricordi - o, come si dice in gergo tecnico, il “bagaglio mestico” - di quelli che saranno chiamati a deporre come testi, un domani: non sapranno più distinguere quello che hanno appreso direttamente, per aver assistito ai fatti, e quello che hanno letto dai giornali o sentito in televisione.

Di chi è la colpa e quali sono gli antidoti?

Difficile indicare colpevoli e soluzioni di fronte ad un problema ormai epidemico e sistemico, che è quasi il frutto di una irresponsabilità organizzata: certo servirebbe un approccio più sensibile ai diritti degli indagati e dei terzi - la presunzione di innocenza, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto al contraddittorio, eccetera - e servirebbero una “ecologia dell’informazione” ed un “giornalismo responsabile” che dovrebbe condurre a selezionare con molta cautela il materiale pubblicato, senza dare un credito fideistico alle ipotesi di accusa e dando sempre voce anche alla difesa, se intende pronunciarsi. Gli antidoti sono anzitutto culturali, e la loro diffusione dovrebbe consentire all’opinione pubblica di avere consapevolezza che quella “mediatica” è una “giustizia senza processo”, una giustizia sommaria che travolge destini professionali, imprenditoriali, politici, calpestando anche vite personali e familiari, una improvvisa “discesa agli inferi” che comprende solo chi ha la sventura di viverla.

Cartabia ha tentato di arginare il processo mediatico recependo la direttiva europea sulla presunzione di innocenza, ma nulla sembra essere cambiato. Il rispetto del diritto costituzionale della presunzione di innocenza viene, infatti, spesso spacciato per un tentativo di proteggere i "furbetti" e limitare la libertà di stampa. Come si possono rispettare entrambi i diritti senza lasciare alibi ai giustizialisti?

L’adozione e l'attuazione della direttiva europea sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza a me pare un passo avanti certamente positivo, in termini di civiltà giuridica, al di là di aspetti tecnici certamente migliorabili.Ma non esiste una legge per far rispettare le leggi. Al di là di ciò, come si diceva, si tratta di un problema culturale: deve maturare una sensibilità nuova in questo campo, sensibile ai diritti in gioco, che conservi al diritto/dovere di cronaca giudiziaria la giusta importanza senza annichilire i diritti contrapposti, ossia senza sacrificare diritti e garanzie degli indagati e dei soggetti coinvolti sull’altare dell’interesse pubblico e dell’audience, ma cercando un equilibrio sostenibile tra i valori in campo. Serve, come anticipavo, un approccio “rights sensitive” che adotti le cautele necessarie senza limitare la libertà di stampa: un po’ come quando sono stati introdotti limiti di velocità, cinture di sicurezza e casco per limitare i danni derivanti dalla circolazione stradale, che - proprio come la libertà di stampa - nessuno ha mai pensato di arrestare.