Martedì prossimo in commissione Giustizia al Senato, nell’ambito del Dl “anti-rave”, sarà messo ai voti anche l’emendamento di Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. In realtà il tentativo di introdurre subito la riforma, pure inserita nel programma di centrodestra, sembrerebbe destinato a infrangersi su un nulla di fatto. Sarà quasi certamente così nonostante il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una intervista al Gazzettino resa lo scorso 24 ottobre, abbia detto: «Mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale». Ancor prima al Corriere del Veneto aveva dichiarato: «Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma». In realtà per l’Anm si tratta un falso problema, come ci aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia in una intervista: «Il problema vero è quello dell’enorme quantità dei processi, su cui le impugnazioni del pm non incidono, attestandosi su una percentuale inferiore al 2%». Al di là delle percentuali, dietro le quali però si nascondono storie individuali, ci sono tre ragioni che vengono addotte a supporto dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione: «L’impugnazione del pm contro questo tipo di decisioni non può convivere con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio», ci disse il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, in una intervista. Mentre il professor Paolo Ferrua ricorda spesso che se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello, subirebbe un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione, tanto è vero che il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici prevede che “ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”. Più voci sostengono che dopo una assoluzione non si può rimanere prigionieri del sistema giustizia per un tempo lungo o indeterminato. E a proposito di storie personali, diversi sono i casi di cronaca giudiziaria che si muovono tra gli scenari appena tracciati. Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche agricole, nel 2020 è stata assolta “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici del Tribunale di Benevento non riconobbero l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una «gestione opaca» del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli fu completamente smontata. Infatti insieme con De Girolamo furono assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. Eppure la Procura fece appello: quest’anno tutte le assoluzioni sono state confermate in secondo grado. Nel dicembre 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una “doppia conforme” assolutoria, i pg di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto. E che dire di Alberto Stasi? Accusato per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto in una calda mattina di agosto a Garlasco, fu assolto con rito abbreviato in primo e secondo grado, poi la Cassazione annullò la sentenza di assoluzione e rinviò ad altro appello che lo condannò. Sentenza poi confermata dalla Cassazione bis. Risultato: 16 anni di carcere e un dubbio enorme sulla sua colpevolezza.Ci solo altre vicende che ancora non si sono concluse in via definitiva ma che comunque sono nel solco del tema trattato. A gennaio di quest’anno la Corte d’assise del tribunale di Viterbo ha assolto Andrea Landolfi dalle accuse di omicidio volontario e omissione di soccorso, per cui il pm aveva chiesto una condanna a 25 anni. Era stato sbattuto su tutte le prime pagine come l’ennesimo autore di un femminicidio. Tutto falso per i giudici di primo grado. Nonostante questo la Procura ha fatto appello, iniziato da un mese. Altro caso recente è quello di Gianni Ghiotti. Nel 2020 si era presentato dai carabinieri dicendo che aveva soffocato con un cuscino la madre, anziana e gravemente malata, per mettere fine alle sue sofferenze. Il giudice di Asti però lo assolve perché stabilisce che la madre era morta per cause naturali. «Ha raccontato - scrive il giudice nella decisione - qualcosa di cui è intimamente convinto ma che non corrisponde alla realtà dei fatti». Due giorni fa invece la Corte di Appello di Torino lo ha condannato a 6 anni e 8 mesi accogliendo la tesi del Pg. Altra vicenda: l’ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari Carlo Mosca era stato arrestato per omicidio volontario: secondo la Procura, nel pieno della pandemia (marzo 2020), l’uomo avrebbe somministrato farmaci poi risultati letali a due pazienti. La Corte d’assise di Brescia lo ha assolto motivando così: è stato vittima di “un’accusa calunniosa di omicidio, tanto più infamante in quanto rivolta a un medico, ossia a una persona avente vocazione salvifica e non certamente esiziale. Di enormi proporzioni è stata soprattutto l’afflizione arrecata all’imputato, che ha patito un’ingiusta e prolungata limitazione della libertà personale e rischiato di subire una condanna all’ergastolo, con gravissime ripercussioni sul piano sia umano che professionale, cui il verdetto assolutorio può porre solo parziale rimedio”. Un mese fa la Procura ha annunciato il ricorso in appello.