C’è un aspetto un po' sconcertante nella manovra avvolgente di Calenda che con l'avvicinamento al governo mira chiaramente a chiudere nell'angolo un Pd molto simile al classico pugile imbambolato dai colpi che barcolla al centro del ring. Si tratta della somiglianza, per non dire dell'assoluta identità, tra le mosse attuali del leader del Terzo Polo e quelle di Enrico Letta sino a pochi mesi fa.

A nessuno, sino a poco prima di una svolta disastrosa e a tutt'oggi inspiegata, era sfuggito il palleggio fra la leader di FdI e quello del Pd, oggetto infatti di numerose e giustificate ironie. Giorgia l'oppositrice sembrava spesso più draghiana di quasi tutti i partiti della maggioranza di Draghi. Salvo Iv e soprattutto proprio il Pd.

Sul tema dirimente della guerra, dell'atlantismo e dell'appoggio anche armato all'Ucraina era difficile, anzi impossibile, rintracciare le differenze tra quelli che erano allora rispettivamente i primi partiti del centrosinistra e del centrodestra. Sembrava evidente che l'obiettivo di Letta fosse, salvo improbabile vittoria nelle elezioni, presentarsi poi come leader, se non del polo vincente, almeno del primo partito dell'opposizione e, almeno nelle rosee speranze di alcuni mesi fa, anche del Paese, per poi aprire una dialogo con l'omologa dell'altra sponda sul tema chiave della riforma istituzionale. Enrico e Giorgia, nemici/amici, si sarebbero così reciprocamente regalati il titolo di fondatori della nuova Italia, di una Repubblica rientrata nella normalità politica.

Perché Letta abbia a un certo punto abbandonato quella strada, rotto con Conte restituendo ai 5S il ruolo centrale che avevano perduto, troncato il dialogo con la leader della destra per rifugiarsi nella ridotta sterile di un antifascismo solo retorico resta per ora un mistero. Fatto sta che Calenda e Renzi si sono affrettati a occupare la postazione lasciata libera dal leader del Pd e la stanno ora cercando di sfruttare al meglio.

Se la maggioranza avesse insistito sull'emendamento inserito nel dl Calabria per prorogare di un anno la delega in bianco al governo in materia di guerra il Terzo Polo, pur sapendo che si sarebbe trattato di una clamorosa forzatura istituzionale, lo avrebbe votato. Quando si tratterà di convertire il decreto ad hoc sul quale hanno ripiegato governo e maggioranza, il voto del Terzo Polo non mancherà. L'incontro fra Calenda e Giorgia Meloni, il cui buon esito è attestato da uno di quei particolari che in politica significano moltissimo come la lunghezza del colloquio, schiude le porte a una strategia di voti incrociati.

Il governo cercherà di accogliere alcune delle proposte centriste nell'iter parlamentare della legge di bilancio. I centristi sosterranno alcune misure importanti sul fronte della giustizia e faranno blocco contro il Reddito di Cittadinanza. Al termine del percorso, se non si verificheranno incidenti di sorta, Calenda e Renzi cercheranno di assumere proprio il ruolo al quale sembrava mirare Letta: fondatori con la destra del nuovo assetto istituzionale. In mezzo potrebbe scapparci un colpaccio clamoroso: l'asse centristi- destra per sgambettare Pd e 5S eleggendo Maria Elena Boschi presidente della Vigilanza Rai, poltrona che spetta all'opposizione e per la quale Pd e Conte hanno già scelto il 5S Ricciardi.

Non è affatto detto però che la manovra riesca. Il lato debole non è certo la resistenza di Pd e M5S, che è nell'ordine delle cose, ma quella, molto più insidiosa degli alleati di Giorgia: della Lega e soprattutto di Forza Italia. Gli azzurri sanno perfettamente che, senza bisogno di alcun cambio o allargamento della maggioranza, a fare le spese del civettamento tra Calenda e Meloni saranno proprio loro, essendo loro, oggi, la forza più critica e insofferente dell'intera maggioranza. Per loro, ma anche per Salvini, Calenda rappresenta una minaccia perché il dialogo tra Chigi e Terzo Polo depotenzia, pur senza disinnescarla, la contrattualità dei soci minori del centrodestra. Dunque si daranno da fare per seppellire quel dialogo: possibimente ancor prima che decolli.