Ieri addirittura annunciava al mondo che il conflitto tra la Russia, l’Ucraina e gli alleati occidentali «mai diventerà una guerra nucleare». Ci pensa lui a mediare, a ricucire, a garantire la sicurezza globale. «Li marcherò stretti» ha promesso Recep Tayyip Erdogan con una metafora calcistica all’uscita dell’incontro tra i capi dei servizi d’intelligence di Stati Uniti e Russia che si è tenuto ad Ankara sotto la sua egida e supervisione.

Per il presidente turco la guerra in Ucraina è stata una specie di manna dal cielo, un regalo inatteso che gli ha permesso di ritagliarsi un ruolo centrale nello scacchiere diplomatico, sfruttando posizione geografica e neutralità bellica nonostante la Turchia faccia parte a pieno titolo della Nato. Come nella crisi del grano fermo nei silos dei porti di Odessa, Chernomorsk e Yuzhny, sbloccata grazie al suo intervento che prima dell’estate ha convinto Mosca a permettere il transito sicuro dei rifornimenti lungo il Mar nero dopo cinque mesi di stallo.

Un successo di immagine clamoroso davanti l’eterea comunità internazionale costretta a riconoscere al “sultano” la dignità di mediatore privilegiato e di interlocutore prezioso con la Russia. I contatti con Vladimir Putin sono d’altra parte costanti e la Turchia è convinta che prima o poi farà sedere intorno a un tavolo lo “zar” e il presidente ucraino Zelensky, prendendosi tutti i meriti. Con entrambi i blocchi indeboliti, Ankara acquisterà più potere e influenza in tutta l’area.

«È meglio una pace sbagliata che una guerra giusta», aveva detto Erdogan lo scorso ottobre dopo un vertice a Praga, manco fosse Martin Luther King o un aspirante al premio Nobel, ma ormai l’andazzo è quello. Un enorme rightwashing che cancella magicamente le sistematiche violazioni dei diritti umani che avvengono sotto il suo regime. Un “dettaglio” che l’Occidente liberale sembra aver dimenticato, o nascosto sotto il tappeto. Eppure dal presunto tentato golpe del luglio 2016 la Turchia ha attuato uno dei più impressionanti dispositivi di repressione mai visti in una sedicente democrazia.

Decine di migliaia di arresti, processi- farsa e condanne sommarie, controllo capillare delle libere opinioni; colpiti in particolar modo i giornalisti, i membri dei partiti di opposizione, gli accademici e gli avvocati sistematicamente assimilati ai propri clienti. Le ultime vergognose sentenze venerdì scorso con la condanna di venti legali appartenenti all’associazione degli avvocati progressisti turchi (Chad) tra cui Barkin Timtik, sorella di Ebru, morta nella prigione di Evin nel 2020 dopo un lungo sciopero della fame.

I reati di “favoreggiamento del terrorismo” e di “eversione” sono talmente vaghi e generici che permettono di far tacere praticamente chiunque dando completa mano libera ai procuratori e alla polizia giudiziaria. Così si può finire in prigione per una parola sbagliata pronunciata durante una lezione universitaria o per una frase di troppo scritta sui social network.

L’attentato di domenica scorsa in pieno centro di Istanbul sembra poi il pretesto ideale per poter schiacciare gli odiati curdi, accusati di aver piazzato la bomba. Nel mirino ci sono sia il Pkk che le milizie Ypg del Rojava già bersaglio di operazioni militari lungo il confine negli scorsi mesi: «La vendetta sarà durissima» ha promesso il sultano, lo stesso celebrato oggi come un grande uomo di pace.