L’arma più forte di cui dispone Giorgia Meloni, il puntello d'acciaio della sua maggioranza, è l'opposizione. Se qualcuno sognava un cambio di marcia e di indirizzo da parte delle tre opposizioni dopo la mazzata del 25 settembre il dibattito sulla fiducia è stato un brusco risveglio. Non solo strada e direzione sono gli stessi della disastrosa campagna elettorale ma la velocità, per tutti, è aumentata. A rotta di collo.

Non si tratta di ipotizzare un'unità d'azione oggi impossibile. Sarebbe però già qualcosa identificare una linea di difesa minima comune. Le tre forze d'opposizione marciano in direzione opposta. Renzi è stato chiarissimo, nei toni e nella struttura dell'intervento oltre e più che nelle parole dette. Non voterà mai una fiducia che Giorgia del resto non gli chiederebbe e non gli chiederà ma è prontissimo a dialogare sui singoli provvedimenti. In particolare su quella eventuale, ma probabile, riforma presidenzialista intorno alla quale un Letta a cui la sconfitta non ha insegnato niente vuol costruire la linea del Piave.

La strategia di Renzi è improntata alla massima aggressività, ma nei confronti del suo ex partito, non della maggioranza: del resto è contro il Pd che si è scagliato nella sua dichiarazione di voto al Senato. L'ex premier spesso azzarda ma sa calcolare meglio di molti altri. Prevede che se il Pd andrà a uno scontro decisivo su un quesito referendario che all'orecchio della stragrande maggioranza degli elettori suonerà come «Volete scegliere chi vi governerà o preferite che lo facciano capipartito e capicorrente» la sconfitta sarà epocale. Si prepara a spolpare dal centro un corpaccione che immagina inerte perché tale effettivamente è al momento.

Per Conte il governo Meloni è un'occasione d'oro e lo sa. La rendita di posizione di un'opposizione grintosa è garantita e l'uomo ha risorse imprevedibili. A Montecitorio ha sfoderato un verve oratoria, merce rara nella politica italiana di oggi, insospettata e perfettamente adeguata al ruolo di opposizione strenua di sinistra con il quale punta a smembrare il già citato corpaccione dal lato opposto a quello esposto ai morsi di Renzi e Calenda. Sulla carta Pd e M5S un punto forte di contatto dovrebbero trovarlo: sia pure con decibel diversi, altissimi quelli di Conte, soffusi quelli di Letta, entrambi hanno promesso in aula opposizione a tutto campo. Ma anche quel punto minimo unificante è vanificato dalla divisione totale sul fronte che oggi pesa più di ogni altro, quello della guerra che si trascina dietro anche la crisi. Per la maggioranza netta degli elettori di sinistra o centrosinistra il pacifismo è un dogma. Conte lo ha capito e non mollerà la presa.

Il Pd sembrava aver capito, nel livido day after del 25 settembre, di doversi dotare di un'identità senza più provare a rappresentare tutti senza riuscire a rappresentare quasi nessuno e comunque non quelle fasce sociali che sono la ragion d'essere stessa di qualsiasi sinistra. È stata una velleità effimera. Nel giro di poche settimane il Pd è tornato a trincerarsi in uno sterile minimalismo identitario, l'antifascismo e l'antisovranismo, senza azzardare alcuna rimessa in discussione della sua storia e delle sue scelte. Ma a fomentare l'arrembaggio incrociato di Renzi- Calenda e dei 5S è proprio l'immobilismo del più forte partito della sinistra, dunque l'impossibilità per il Nazareno di formare un vero fronte o con i centristi o con la nuova sinistra di Conte (perché di questo si tratta).

Certo non è detta l'ultima parola. Il Pd ha di fronte a sé un congresso che potrebbe essere molto importante ma che non lo sarà se si ridurrà, come il segretario uscente ha detto alla Camera, a una manifestazione d'opposizione al governo. Compito di un congresso, in una fase difficilissima come quella che sta attraversando il Pd, non è ribadire la propria ovvia opposizione a un governo orgogliosamente di destra. È riflettere con piglio decisionale su se stesso e sui propri conclamati limiti.

Dietro l'angolo, inoltre, ci sono le elezioni nel Lazio e nella situazione data il rischio di vedere la Regione espugnata dalla destra è altissimo. Alla vigilia nessuno all'opposizione sembra in grado di fronteggiare la minaccia e non è affatto detto che un nuovo pesantissimo colpo svegli dal suo assopimento il gruppo dirigente del Nazareno. È possibile e auspicabile ma è anche possibile, e tutt'altro che auspicabile, che invece lo tramortisca definitivamente.