Più di “un’opposizione nel panico”, come Il Foglio ha titolato in rosso facendo un po’ di tutta l’erba un fascio, io parlerei del panico del Pd, o almeno fra gli elettori che gli sono rimasti il 25 settembre scorso. E ciò a dispetto della tranquillità che cerca di mostrare, pur nella delusione, il segretario ormai uscente Enrico Letta.

L’opposizione delle 5Stelle mi sembra francamente rinfrancata, se non addirittura esultante, per avere perduto solo la metà dei voti del 2018 con Giuseppe Conte. Al quale Beppe Grillo in persona ha voluto esprimere la propria gratitudine scendendo a Roma dalla sua Genova.

Impossibilitati per l’aritmetica, nonostante i loro algoritmi distorsivi, a tornare alla guida del governo come per buona parte della scorsa legislatura con Conte - sempre lui- a Palazzo Chigi alternando maggioranze di segno opposto, i pentastellati si accontentano di scalare la guida della lotta al governo di Giorgia Meloni. O di rafforzarla, visto che hanno già dato l’impressione di averla conquistata, o di esservi molto vicini per il panico, appunto, in cui trova il partito del Nazareno. Che mi sembra paradossalmente diviso fra chi intende inseguirli e chi intende subirli con la proposta di tornare il più rapidamente possibile alla politica di quanti già nella scorsa legislatura avevano riconosciuto all’allora presidente del Consiglio di essere “il più alto punto di riferimento dei progressisti”. Ricordate le interviste e i saggi di Goffredo Bettini, non arresosi neppure di fronte ai risultati elettorali del mese passato?

Matteo Renzi e Carlo Calenda, sempre dall’opposizione con il loro terzo polo uscito dalle urne non come speravano ma comunque vivo, senza i prefissi telefonici sarcasticamente attribuitigli dagli avversari, si godono a loro modo lo spettacolo dell’inseguimento fra le altre due componenti dello schieramento del no al governo Meloni. E scommettono sulla possibilità di trarne prima o poi benefici, naturalmente a scapito del Pd. Al quale, per esempio, Renzi in persona nelle dichiarazioni di voto per la fiducia al Senato ha chiesto con abrasiva efficacia perché avesse deciso, unendosi alle argomentazioni grilline, di lasciare alla destra la bandiera del “merito”: la parolina magica, direbbe la buonanima di Amintore Fanfani, aggiunta da Giorgia Meloni alla denominazione del dicastero della Pubblica Istruzione già nella lettura della lista dei ministri al Quirinale e duramente contestata da sinistra.

Eppure nell’articolo 34 della Costituzione che si occupa proprio della scuola è scritto testualmente che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ripeto: capaci e meritevoli. Tra il discorso dell’altro ieri al Senato di Renzi, peraltro marito di un’insegnante, e l’editoriale di ieri del professore Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera il Pd si è fatto dare una lezione che poteva risparmiarsi. E si è procurato lo spettacolo, comunque dannoso per l’opposizione unitariamente intesa, di quei sorrisi della Meloni a Renzi che si chiedeva se, sotto sotto, non ci fosse tra lei e il Pd un perfido accordo per aiutarsi a vicenda, l’una ricevendo regali dall’altro con polemiche a dir poco rovinose.

Si dovrebbe poter sperare - ma ne dubito- che nel suo inseguimento dei grillini sulla strada di un’opposizione la più “spietata” possibile, per ripetere un aggettivo adoperato da Conte, il Pd abbia almeno il buon senso e il buon gusto di non adottare la filosofia, chiamiamola così, dell’intervento dell’esordiente senatore pentastellato Roberto Scarpinato, ex procuratore generale a Palermo. Che ha praticamente messo una serie di processi, alcuni dei quali gestiti anche da lui, al servizio della demonizzazione della destra: eversiva sia per un lungo elenco di accuse giudiziarie sia per il progetto presidenzialista ribadito nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera dalla Meloni. Che naturalmente non si è lasciata scappare l’occasione per ricordare all’ex procuratore generale, nella replica, la penosa fine di certi processi politicizzati e i depistaggi delle indagini sfuggiti troppo a lungo alla magistratura sulla strage di via D’Amelio, a Palermo. Dove nel 1992 la mafia stragista riuscì ad uccidere, dopo Giovanni Falcone, anche Paolo Borsellino.