«Il fatto non sussiste». Si è concluso così, lo scorso anno, il processo a carico dei 15 imputati accusati di corruzione internazionale relativamente ai diritti di esplorazione del giacimento Opl245, tra i quali l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni. L’indagine puntava a dimostrare il pagamento di una maxi- tangente da 1 miliardo e 92 milioni ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero.

Per il collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada, però, mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato». Al contrario, l’accusa rappresentata da Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro sarebbe stata in possesso di prove che avrebbero potuto contribuire a provare l’innocenza degli imputati, prove tenute però nascoste. Tra queste un video girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica - e smentita - “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna (ex manager del cane a sei zampe) di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società.

Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averla né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». E proprio per tale motivo i due magistrati finiscono sotto indagine per rifiuto di atti d’ufficio. Ma c’è di più.

Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, il pm milanese Paolo Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. Secondo gli atti trasmessi da Storari, Eke non si sarebbe presentato in aula ritenendo il “compenso” di 50mila dollari insufficiente, mandando al suo posto un amico.

Il ruolo di Eke nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Che le chat depositate fossero false ora è provato anche da una perizia disposta dal procuratore aggiunto Laura Pedio sul telefono di Armanna - clamorosamente mai sequestrato prima di luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente da Armanna al Fatto Quotidiano -, che ha stabilito che i messaggi WhatsApp che l’ex manager ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico.

A chiudere la vicenda la decisione della pg Celestina Gravina di non impugnare le assoluzioni: le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». ( si. mu.)