«Le radici comuni dell’Europa non sono né cristiane né pagane, le radici comuni dell’Europa sono nel liceo classico fatto a cazzo di cane». Questo incipit, che copio sbirciando dai vecchi compiti giornalistici di Guido Vitiello, vale come sempreverde affermazione di modestia per tutte quelle occasioni in cui la letteratura e la stampa italiane brandiscono malamente le grandezze della tradizione.

E vale anche come epigrafe perfetta per il nuovo romanzo di Gaja Cenciarelli, “Domani interrogo”, appena uscito per Marsilio. Perché? Certo, perché è un libro sulla scuola, come il riflesso condizionato dell’azzeccatissimo titolo costringe a intuire. Meglio, perché è un libro sulla quinta superiore di uno scalcagnato istituto scolastico della periferia romana, sulla sua insegnante di inglese appena assunta e sull’anno che entrambi hanno di fronte per arrivare all’esame di maturità. Un’esperienza che la scrittura dell’autrice riesce a far diventare quella radice comune dell’incipit.

Comune, e che quindi non soffre - tanto intimamente riguarda ogni lettore - dall’essere contenuta nella generica trivialità dell’espressione ” liceo fatto a cazzo di cane”. Come fa Cenciarelli una simile magheria? Come riesce a tenere insieme per duecento pagine l’ilarità e la disperazione, le speranze e i fallimenti, gli errori e i colpi di fortuna, la responsabilità consapevole dei momenti adulti e la sconsideratezza vitale di quelli adolescenziali? E come fa sì che quell’ultimo anno di scuola di quella quinta superiore lì con quell’insegnante lì in quel quartiere lì si allarghi alla dismisura di diventare il racconto della ricerca della maturità per chiunque lo legga?

Innanzitutto, questo libro non teme i sentimenti. Al contrario, li tallona, li varca, li squaderna. L’insegnante d’inglese protagonista a malapena trattiene l’autrice stessa, insegnante d’inglese anche lei, e si lascia andare a un flusso di coscienza irresistibile perché appunto irresistibilmente sentimentale. I suoi tremori nell’entrare, sola, in classe sono i nostri tutte le volte che capita di intraprendere una relazione nuova. I suoi pensieri su come ci si guadagni in classe il rispetto, come la complicità e perfino l’affetto sono quegli stessi di ogni situazione lavorativa in cui si rimugini: fino a che punto è giusto prendersela sul personale? Quali sono i limiti del distacco? E quelli dell’empatia?

E le sue riflessioni su come educarsi ed educare a crescere, e quindi a esprimere il proprio malcontento e affrontare i conflitti, debordano dai muri scolastici e sono quelle di tutti coloro che si interrogano sui confini del linguaggio. La professoressa protagonista è per tutto il libro in cerca delle parole giuste. Il Grande Problema che incontra, e con lei i suoi studenti, è quello del male: è possibile limitarlo purché lo si metta in parole?

“L’abitudine trasforma anche il male in normalità, perché quel male s’impara a nominarlo. «Pressore’», o anche «presso’» ( «Tanto voi professori sete tutti uguali, nun c’è differenza tra maschi e femmine» ), «fra’», «cuore», «a ’ na certa ba’», «te dico ’ a verità», «manco a fa’ così», «sto a stira’», «sei ’ a vita mia», «te amo», «l’esatta metà di me», «spigne pezzi de cocaina». Tutte locuzioni che sono entrate a far parte anche del linguaggio della professoressa, un linguaggio che usa quando parla con loro. Mentre loro, su Instagram, usano molto spesso citazioni inglesi e poi le chiedono: «A pressore’, ma che vor di’ ’ sta frase? Secondo lei ce sta bene dentro a ’ sta storia?». Da quando nomina la droga, la professoressa non ha più paura della droga. Il che non equivale a dire che non la spaventi, ma non ha paura di guardarla in faccia, anche perché spesso ha lo stesso viso dei suoi ragazzi. Non sa se riuscirà a portarli a nominare il mondo come fa lei, come fanno tutti i suoi colleghi e amici, ma sa che se non impara a nominare il loro mondo non esisterà nemmeno la speranza di aprirsi un varco nel punto più scoperto. Deve sbrigarsi a farsi largo, deve farlo prima di iniziare a spiegare George Orwell o, peggio ancora, Samuel Beckett. Nomina sunt consequentia rerum”.

Un programma didattico da portare avanti, un linguaggio da costruire perché quel programma incontri il mondo lessicale dei suoi studenti e una relazione da riguadagnarsi a ogni lezione perché la vita non tiene conto delle scadenze ministeriali. E quegli studenti vivono anche incidenti, violenze, omertà, ricatti, spaccio e tutto quel marasma di sovrapposizioni per cui nell’adolescenza un guaio sentimentale può essere grave quanto un guaio con la giustizia.

L’età in cui si sa istintivamente che il tempo è soprattutto quello che si percepisce. Il secondo movimento con cui Cenciarelli fa diventare comune il suo romanzo sull’ultimo anno di scuola della quinta A è la scelta linguistica operata. Il lessico è colloquiale, dialettale e calato in un presente immediato che restituisce il clima dell’aula forzandoci a una immedesimazione completa. Ma ci sono delle fughe in avanti. Piccoli brani incastonati nell’olio del romanaccio in cui scorrono i mesi scolastici che descrivono le vite degli studenti prima e dopo l’anno della maturità. Interviene il tempo e una sua prima dilatazione. Che l’autrice esaspera ulteriormente nel mondo degli oggetti scolastici. Le aule, i cancelli, le pareti, i corridoi, i distributori della scuola ricevono una umanizzazione. Sono personaggi anche loro, testimoni di una ulteriore durata: quella della scuola in sé, che vede scorrere tutte le vicende minute dei protagonisti di questo romanzo, e quelle di altri professori e altri studenti ancora. La scuola è immobile, ma viva, contenitore vigile degli squilibri passeggeri dei suoi abitanti.

E, infine, il tono usato. Cenciarelli riesce a costruire un romanzo sul fallimento tenendosi equidistante tanto dalla retorica che dal cinismo. Non c’è alcuna caduta nella nostalgia di un dover essere dell’educazione irrimediabilmente perduto, nessuna gerarchia di valori senza tempo e nessuna salvezza a buon mercato purché ci si impegni. Ma c’è un attaccamento ostinato alle domande che il mestiere dell’insegnante porta con sé: si salveranno?

Li salverò? E, subito, la loro risposta ironica: “A pressoré, ma salvarci da cosa?”