In principio fu Davide Casaleggio, congedato malamente dal partito, poi è toccato a Beppe Grillo, ridimensionato per statuto, infine a Luigi Di Maio, “morto” per scissione. Sta tutto qui il segreto politico del successo di Giuseppe Conte: resuscitare il Movimento dopo averlo rottamato. Quella creatura ambigua, fondata sul plebiscito del web nel 2009 non esiste più nemmeno formalmente. Forse non esistono più nemmeno i grillini, che da oggi dovremmo chiamare semplicemente contiani. Perché l’avvocato spuntato dal nulla sulla scena politica italiana ha cambiato profondamente i connotati di quel fenomeno cresciuto col vento del “vaffa”.

Il partito liquido ha iniziato a strutturarsi, con una segreteria, dei quadri e quelli che un tempo si sarebbero chiamati “dipartimenti” ( aree tematiche da curare e date in “appalto” ai dirigenti). L’ambiguità del “né di destra né di sinistra” ha lasciato il posto a una scelta di campo, quello progressista. Certo, resta ancora bandita dal vocabolario pentastellato la parola “sinistra” ma l’ex premier in campagna elettorale si è rivolto parlato prevalentemente ai delusi del Pd sventolando la bandiera del welfare e del pacifismo. E senza più la vecchia guardia, falcidiata dalla tagliola sui due mandati, Conte crede di non avere più ostacoli per poter realizzare la profezia zingarettiana: trasformarsi nel punto di riferimento dei progressisti italiani. È questo «il progetto che l’avvocato coltiva», come confermano da ambienti pentastellati.

Perché se il Pd aveva scommesso sulla morte elettorale del Movimento, ora Conte punta tutte le fiches sulla «dissoluzione dei democratici», lacerati da regolamenti di conti interni dopo la “sconfitta” e da visioni inconciliabili. L’obiettivo è rendere quello che fu il M5S, il nuovo partito di Conte, attrattivo, anche a livello parlamentare, per tutta quell’area - da Fratoianni ai bersaniani, passando per la sinistra dem - che non potrà trovare cittadinanza tra le mura del Nazareno. Magari giocando anche di sponda con la Cgil, il sindacato rosso che ha evitato accuratamente di schierarsi al fianco del Pd in questa tornata elettorale. O almeno questo è il ragionamento dei contiani, che sperano di “mangiarsi” la rappresentanza della sinistra in Italia, partendo da quell’insperato 15 per cento uscito dalle urne di domenica.

E pensare che all’inizio della sua scalata nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulle capacità politiche di quell’uomo così goffo e impacciato. Arrivato a Palazzo Chigi quasi per caso nel 2018, sotto la tutela di Rocco Casalino, per un anno Conte fa da uomo immagine del governo giallo-verde. A decidere, in realtà, sono Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Trafelato, l’allora avvocato del popolo si affanna a stare in equilibrio tra quei due che giocano a fare gli statisti e si ritrova a firmare leggi mai figlie di una sua visione. Il reddito di cittadinanza, certo, ma anche i decreti sicurezza di cui si scuserà in seguito: forse quel giorno non c’era o se c’era dormiva. È col Papeete, il primo grande colpo di fortuna, che Conte inizia a mostrare qualcosa di insolito.

Il discorso con cui affronta e sfida il leader della Lega in Parlamento rivela capacità da leader fino a quel momento sconosciute e grazie alla sponda inattesa di Matteo Renzi può rimanere a Palazzo Chigi guidando però una maggioranza opposta alla precedente. Nasce l’era giallo- rossa e Conte si trasforma in premier e punto di riferimento dei «progressisti» italiani. È lì che il presidente 5S capisce che per assecondare le sue ambizioni deve prendersi il partito, il M5S, togliendolo brutalmente dalle mani di Grillo, Casaleggio jr e Di Maio.

La pandemia, paradossalmente, è una manna dal cielo per la popolarità di Conte che molti italiani cominciano ad apprezzare per quelle conferenze stampa serali con cui rassicura un intero Paese relegato tra le mura domestiche. Quella stessa popolarità, sottovalutata dal Pd, che ha contribuito alla “rimonta miracolosa” di domenica. La fine del governo Draghi ha fatto il resto, liberando l’avvocato dai lacci del politicamente corretto. Letta è rimasto al palo, il capo dei 5S è rinato. E ora punta, con un partito costruito a sua immagine e somiglianza, a spazzare via la concorrenza.