Il dramma della dodicenne accoltellata al volto a Napoli da un ragazzo di soli 16 anni ha riaperto il dibattito sull’età imputabile per i ragazzi, dividendo i commentatori tra chi ritiene sia giusto scendere sotto la soglia dei 14 anni e chi difende il limite fissato dal legislatore. E tra questi ultimi c’è Nicola Quatrano, storico magistrato anticamorra del Tribunale di Napoli e oggi avvocato, secondo cui i fenomeni di violenza minorile sono frutto di un disagio che si alimenta di esclusione sociale. E ritenere dei bambini responsabili penalmente delle proprie azioni equivale proprio a questo: buttarli fuori dalla società, mentre ciò che serve è protezione.

Il presidente del Tribunale minoriledi Napoli Giancarlo Posteraro propone di affrontare il problema della violenza giovanile abbassando l’età imputabile. È una proposta utile?

Queste proposte sono ricorrenti. Sembra il gioco dell’estate, ma se ne potrebbe fare a meno. Queste risposte ai fenomeni di criminalità giovanile lasciano il tempo che trovano: ci sono ragioni serissime per fissare a 14 anni l’età dell’imputabilità. E sono ragioni complesse, frutto di esperienze, studi clinici e scientifici: secondo queste ricerche è quella l’età in cui si diventa responsabili e si può rispondere delle proprie azioni. E sono argomenti talmente seri che sicuramente non possono essere superati dalle boutade estive di questo o di quello.

Lo spunto è dato dalla vicenda della ragazzina di 12 accoltellata al volto, ma a compiere il gesto è stato un ragazzo di 16 anni, dunque queste proposte non hanno nemmeno a che fare con il caso concreto. Ma cosa comporterebbe?

Intanto credo sia sbagliato partire dal caso concreto per pretendere di modificare il sistema normativo e adeguarlo al singolo fatto. Non si può fare. In merito alle conseguenze, voglio proporne provocatoriamente una tra quelle possibili: se noi abbassiamo l’età di imputabilità sotto i 14 anni, allora andrebbe abbassata anche quella del consenso sessuale. Se si è responsabili allora lo si è in entrambi i casi. Questi signori che pretendono di mettere in galera i ragazzini di 12 anni che fanno cose che non vanno dovrebbero dunque accettare anche che alla stessa età si possa avere un rapporto sessuale con un adulto: siamo sullo stesso piano. Ovviamente, ribadisco, è una provocazione, ma dà il senso immediato di questa proposta. A 12 anni, però, un bambino non è in grado di autodeterminarsi, in entrambi i casi, perché troppo influenzabile. E non può essere considerato penalmente responsabile delle azioni che compie. Siamo in una fascia d’età che deve essere protetta, in cui il valore prioritario rispetto a tutte le altre esigenze che concorrono è quello della protezione e della formazione. E questo impone che non sia ritenuto responsabile. C’è una serie di strumenti, anche applicabili al minore di 14 anni in termini di interventi sociali e correttivi. Ma la responsabilità penale è impensabile.

C’è comunque un’emergenza: nella sola Campania in un anno 5mila ragazzi sono finiti a giudizio. Come si interviene?

Certo che c’è: che viviamo in un mondo violento non lo scopriamo certo oggi. Per cui occorrerebbe davvero farsi carico della violenza. Ma in quali termini? Nei confronti degli adulti si interviene con metodo repressivo, nei confronti dei bambini si interviene con metodo educativo e con l’assistenza sociale.

Però i dati sugli assistenti sociali sono impietosi: in alcuni comuni, specie al Sud, ce n’è uno solo per un’intera comunità. Da cosa bisogna partire?

Non sono un pedagogista, ma posso dirle che mi colpì molto, qualche tempo fa, in occasione di una manifestazione che si tenne alla Sanità da parte di un gruppo di cittadini che invocava più tutela e più sicurezza proprio contro la devianza giovanile, il fatto che si presentò padre Alex Zanotelli con un cartello in cui c’erano le cifre delle bocciature nella scuola di quartiere. Ed erano cifre impressionanti. L’intervento educativo, secondo me, passa per prima cosa dal non buttare fuori dalla scuola i ragazzi più complicati. Abbiamo inutilmente celebrato il centenario della nascita di don Milani: a chiacchiere lo esaltiamo, esaltiamo il suo insegnamento, dopodiché quello che è l’essenza dello stesso, cioè una scuola che si prende carico del “peggiore”, quello che ha più problemi, è del tutto dimenticato. E in un quartiere in cui si cacciano dalla scuola i bambini poi non ci si può lamentare del fatto che la violenza cresce. Cacciare dalla scuola equivale a ridurre l’età di imputabilità e spedire in carcere un bambino: sono due forme parallele di esclusione sociale, che eliminano fisicamente non il problema, bensì la persona. Tutto il resto, però, rimane invariato.

C’è il rischio che ciò rafforzi le convinzioni errate che portano i ragazzini a delinquere?

Per stabilirlo è necessaria una valutazione riservata agli specialisti e non vorrei aggiungermi alle vox clamantis del luglio caldo che parlano di cose di cui magari farebbero bene a non parlare. Quello che solo per buon senso mi sento di dire è che il problema non si risolve escludendo il minore dal consorzio sociale, ma cercando con tenacia, con insistenza di mantenerlo dentro il contesto sociale. Poi è chiaro che ogni minore che si sottrae alla devianza è tanto una battaglia vinta e più battaglie vinte consentono di vincere la guerra. Ma così come sono contrario all’abbassamento dell’età imputabile sono contrario anche ad allontanare dalla famiglia i figli dei camorristi: ne penso tutto il male possibile.

Il presidente dell’Associazione nazionale Camera penale minorile Mario Covelli sostiene che andrebbero riformati sia l’articolo 699 del codice penale sulla detenzione e il porto di coltello sia l’articolo 4 della legge 110/ 1975 sulle armi improprie, oggi puniti solo con una contravvenzione. È d’accordo?

Una migliore architettura del sistema sanzionatorio va articolata, perché l’intervento penale deve essere ragionato e ispirato alla riduzione del danno. Quindi mi pare ragionevole l’idea di intervenire in questo senso, come suggerisce Covelli. Però questo mi fa pensare un’altra cosa: il dibattito sulla riduzione dell’età imputabile non fa i conti con la facilità con cui si riesce ad ottenere un’arma da fuoco. Negli Usa ci si batte per cercare di controllare il mercato delle armi e per una parte politica è diventata la battaglia principale per ridurre gli episodi di stragi nelle scuole. È vero che in Italia è più difficile l’accesso alle armi, però c’è una grande circolazione, eccessiva e questo potrebbe essere uno dei settori sui quali intervenire.