Non conosciamo le motivazioni che hanno spinto la Corte d’appello di Firenze a condannare l’ex ad di Ferrovie Mauro Moretti a 5 anni di carcere per la strage di Viareggio del 2009. Ma ci chiediamo, insieme al past president dell’Unione Camere penali italiane Beniamino Migliucci, se questa complicata vicenda giudiziaria non possa essere stata segnata anche dal combinato disposto di un populismo penale che si è fatto governo, di una gogna di piazza e dell’idea ormai radicata che si debba cercare un colpevole di un certo spessore.

La nuova norma sulla prescrizione è maturata proprio nella fase di passaggio tra la sua presidenza dell’Unione e quella attuale di Gian Domenico Caiazza. L’ex ministro della Giustizia Bonafede si recò a Viareggio il 29 giugno 2018 e annunciò la riforma dinanzi ai comitati delle vittime.

Quando ero presidente dell’Ucpi era ancora in vigore la riforma Orlando sulla prescrizione, già emanata sotto la spinta di pulsioni emotive. Basti pensare che nel 2014 il numero dei procedimenti andati in prescrizione era dimezzato rispetto al 2005. Bonafede, seguendo la connotazione populista del suo partito, aveva approfittato ancora una volta di una vicenda che aveva provocato grande dolore per annunciare una scriteriata riforma che avrebbe reso il processo penale infinito. L’imputato invece ha diritto a un processo celebrato in tempi ragionevoli e con lui le persone offese e la società.

Proprio Bonafede disse nel 2019: “Basta impunità per i colletti bianchi”. Quel tipo di cultura sembra non ci abbia fatto bastare le condanne comminate per la stessa vicenda agli operai della manutenzione, ai dirigenti delle officine, ai responsabili dell’impresa tedesca proprietaria del carro cisterna.

Quelle dichiarazioni non stupiscono, considerato che l’ex ministro rappresentava quella che il professor Violante definì «la società giudiziaria che non chiede il processo, chiede la punizione di chi considera colpevole perché imputato, non condannato, per qualsiasi tipo di reato oppure perché appartenente a quelle classi dirigenti ritenute responsabili del malaffare o titolari di privilegi ingiustificabili. Ciò che punisce risana, sembra ritenere la società giudiziaria» .

Il professore e avvocato Ennio Amodio, commentando la forte protesta dei parenti delle vittime quando la Cassazione prescrisse un reato, ci disse in un’intervista: “Le vittime devono essere rispettate ma devono anche rispettare il processo”. Ieri proprio il presidente della Corte d’appello è dovuto intervenire perché i familiari delle vittime si erano voltati di spalle in Aula quando Moretti aveva fatto le proprie dichiarazioni spontanee. Che ne pensa?

Ha perfettamente ragione il professore Amodio. Le vittime devono essere rispettate ma tutti dovrebbero ricordare che nel processo penale la parte debole è l’imputato, e che la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, così come la nostra Costituzione, prevedono che il processo debba essere equo, giusto nei suoi confronti.

È d’accordo nel dire che negli anni anche la magistratura, per il tramite della stampa, ha alimentato la rappresentazione di una classe politica e dirigenziale che di per se stessa evoca corruzione?

In questo Mani Pulite è l’origine di tutti i mali: la magistratura requirente instaurò un collegamento diretto con l’opinione pubblica offrendo una rappresentazione manichea della società nella quale la politica o le classi dirigenti rappresentano il male assoluto. Nel tempo questa rappresentazione si è sedimentata nell’immaginario collettivo, e i social, i talk show e un certo tipo di informazione hanno contribuito a mantenere salda questa idea. La magistratura si trova spesso in difficoltà proprio perché può essere fortemente condizionata sia dalle campagne di stampa che dalle mobilitazioni dei processi in piazza. Quanto precede è tanto vero: basti ritenere che spesso i magistrati che assolvono o irrogano pene non ritenute congrue dal Tribunale del Popolo vengono esposti a feroci critiche e persino a minacce. L’idea di valorizzare le indagini con nomi e personaggi altisonanti, tra politici e alti dirigenti, è una abitudine parimenti radicata nel tempo. In proposito ricordo il caso di Enzo Tortora.