Forse bisogna mettersi d’accordo di quale guerra parliamo. La “prima” guerra – quella immaginata e programmata come una guerra- lampo, con un’aggressione improvvisa e un massiccio dispiegamento di truppe su una lunghissima linea di confine ucraino il 24 febbraio – è stata persa da Putin. È molto probabile che Putin contasse su una minore resistenza, se non proprio su una “fraterna accoglienza”: di certo, riteneva che il governo Zelensky non avesse un gran consenso; sì, era stato eletto con oltre il 70 percento di voti, ma i voti si sa non devono essere proprio contati, e poi che “stoffa d’uomo” poteva essere quell’attorucolo; quella sorta di appello che Putin fece ai militari ucraini perché si rivoltassero contro Zelensky e ponessero fine a quella “pantomima di stato” cadde nel vuoto. La resistenza dell’esercito e del popolo era inattesa in quella estensione, in quella durata, in quella determinazione - e d’altra parte sorprese anche buona parte del mondo occidentale che, per la verità, non ha mai capito bene che cosa possa avere significato cinquant’anni di dominio russo sull’est europeo e quali rancori, quali odi si siano sedimentati.

La chiave di volta che cambiò decisamente lo scenario fu proprio la resistenza ucraina: è solo di fronte a quella che “l’Occidente” iniziò a schierarsi decisamente, dopo le prime “dovute” costernazioni. Questa guerra, Putin l’ha persa e l’ha persa doppiamente. E anche qui va fatta una distinzione tra la guerra propriamente militare, quella sul campo, e la guerra politica, il “clash di civiltà” che lo stesso Putin evocò parlando di democrazie deboli, corrotte, omosessuali. La reazione dell’Occidente fu forte, onesta, virile, e Putin perse anche su quel piano lì.

Poi, è iniziata la “seconda” guerra di Putin in Ucraina, quando, cambiate linee e gerarchie di comando, allentò la presa su un’estensione di confine enorme e sul tentativo di sfondare da nord e arrivare fino all’ovest, a Leopoli, e spostò e concentrò truppe sull’est e sul sud – dal Donbass a Mariupol. Questa è la guerra militare che stiamo vivendo adesso – quella, per capirci, che ha fatto di Mariupol un assedio “obbligato”, simbolico e reale fino alla conquista dell’Azovstal dopo avere raso al suolo la città. Non sappiamo se nelle intenzioni di Putin vi sia quella di prendere anche Odessa, per costruire un corridoio che arrivi al mare e ne tagli l’Ucraina, o addirittura spingersi fino alla Transnistria e intanto conquistare definitivamente Kharkiv che è la seconda città dell’Ucraina, per popolazione.

Come ha detto April Haines, direttore della National intelligence, in un’audizione davanti a una Commissione del Senato americano: «L’incerta natura della battaglia, che va prendendo forma in una guerra di logoramento [a war of attrition], combinata con la realtà che Putin deve affrontare una non- corrispondenza tra le sue ambizioni e le attuali capacità militari convenzionali della Russia, probabilmente significa che i prossimi mesi potrebbero vederci muovere lungo una traiettoria più imprevedibile e di potenziale escalation Per finire, crediamo che questa discrepanza si risolva in Russia in un periodo di decisioni più “al momento”». Questa è la guerra militare che stiamo vivendo adesso, una guerra “di giorno in giorno”. E che si prospetta lunga. Questa guerra Putin non la sta perdendo.

Dal 24 febbraio al 22 aprile, il ministero russo della Difesa dichiara solo 1.351 perdite; fonti russe indipendenti (Mediazona) parlano invece di almeno 1.744 perdite. Il Dipartimento di Stato americano parla di almeno 10mila perdite solo per la fine di marzo e dal fronte ucraino la cifra addirittura raddoppia. Non c’è modo adesso di sapere le cifre esatte, però dall’inizio della guerra l’esercito ha perso 317 tra tenenti, maggiori e colonnelli – che sono circa un quinto del totale e è un numero altissimo in proporzione, che viene spiegato per un verso con il fatto che c’è più “riguardo” verso di loro e per un altro che questo tipo di gerarchia ha un ruolo operativo diretto nei combattimenti. I numeri dicono che la maggior parte delle perdite l’esercito russo le ha subite durante i primi giorni della guerra, quelli appunto dell’assalto – e che le regioni di provenienza maggiore sono il Daghestan, che sta al sud, e la Buriazia, che sta nella Siberia meridionale, luoghi lontani, insomma, da Mosca e San Pietroburgo.

Sul piano politico, Putin sta perdendo questa “seconda” guerra? Qui, la questione si intreccia con i problemi economici che il conflitto sta provocando in occidente. Negli ultimi report la Commissione europea aumenta la previsione al ribasso: specificamente per l’Italia, il PIL dovrebbe scendere all’ 1,9 percento, rispetto al 2,4 di quest’anno ma soprattutto rispetto al 6,6 percento del 2021; ma non sta messa bene neanche la Francia, che dal 7 percento dell’anno scorso vede il suo PIL ridursi al 3,1 percento quest’anno e all’ 1,8 percento l’anno prossimo.

Tutti i leader del mondo occidentale continuano a riaffermare la loro profonda unità di intenti però poi non ci si riesce a mettere d’accordo per bloccare il gas, si trova un escamotage per pagarlo in rubli secondo l’ukaz di Putin, non si riesce a proseguire sulle sanzioni. E assume un aspetto contraddittorio e bizzarro una guerra che vede l’un nemico contro l’altro ma ne fa nello stesso tempo un cooperante: Putin ci fornisce il gas, essenziale per la nostra economia, noi lo paghiamo in rubli, essenziali per la stabilità del suo regime.

È vero che la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia rafforza il fronte occidentale, ma è vero anche che l’abbandono della loro storica neutralità accade sotto la spinta della paura, della percezione di una possibile minaccia. E non s’è mai fondato e costruito un progetto politico sotto il ricatto d’una minaccia, ma semmai come segno d’una speranza, d’un avvenire.

Le divisioni dentro il fronte occidentale – specchio di diverse economie, di diverse autonomie energetiche, di diversi orientamenti di governo e di opinione – stanno a petto di un regime, quello di Putin, che non ha una grande sensibilità verso l’opinione pubblica, la società civile e le forme della democrazia; in più, può decidere da solo, nel bene e nel male. Che succederà se la guerra si allunga tanto? Qui stiamo. Giorno dopo giorno.