di Antonella Trentini (PRESIDENTE UNAEP)

La professione forense perde appeal non da oggi ed è riduttivo circoscrivere la "fuga dalla professione", o l'intenzione di fuggire, al solo dato economico e al conseguente richiamo del concorso pubblico, oggi reperibile in grande quantità. Quali allora le cause dell'arretramento progressivo della professione forense fra le professioni d'eccellenza? E qui ce n'è per tutti. Dapprima fu l'introduzione delle facoltà a numero chiuso, lasciando a se stesse quelle a libero accesso, fra cui giurisprudenza: si è passati dalla scelta della facoltà, al "rimedio" per fare l'Università. Nello specifico, dal "sentirsi" avvocato (per scelta, dunque), al fare l'avvocato  per necessità). E qui si incontra il primo scoglio: fare l'avvocato non è un mestiere come un altro; è una missione, una passione e, se si è scelta questa professione, la si ama nella buona e nella cattiva sorte. Se la si subisce è come un parcheggio, da cui si decide di entrare e uscire a seconda delle necessità.

Si pensi all'Ufficio del processo, ad esempio, ove tanti avvocati (forse più di nome che di fatto) hanno trovato rifugio, passando dalla difesa dei diritti ( forse) alla raccolta dei documenti dei processi e, nel migliore dei casi, alla predisposizione delle bozze di decisione. In questo caso è difficile pensare che la ' missione forense' svolti radicalmente nella direzione del "impiegato forense". A meno che non si introduca la figura del "paralegal" come negli ordinamenti anglosassoni.

E qui entriamo nel secondo argomento. È noto che da svariati anni, complice una legge forense figlia del compromesso dei tempi, esistono studi legali che scimmiottano le legal firm anglosassoni: grossi studi legali con sedi anche all'estero, che operano in regime di monocommittenza. Tuttavia una monocommittenza all'italiana, ove spiccano i dati negativi e sfumano quelli positivi. Queste realtà reperiscono avvocati- collaboratori a tempo pieno, esiguamente pagati in regime Iva, con fatture a cadenza mensile (modello retribuzione), ovviamente senza compartecipazione ai compensi professionali, generalmente fra i giovani neo avvocati, più vulnerabili e più sfruttabili.

Per questi giovani colleghi non vi sono le garanzie del lavoro dipendente, né i vantaggi della libera professione forense. È la nuova tipologia dello "schiavismo del nuovo millennio"', come definita on line, ove sfruttamento e "mai- una- gioia" finiscono per demotivare giovani colleghi anziché investire su di loro. Tutto il contrario dell'originale anglosassone. Ovviamente non si discutono le scelte personali, tutte degne di rispetto, ma avvilendo i giovani si comprime quella freschezza ed energia che caratterizza la missione dell'avvocato, il quale giura, perché ci crede, di difendere i diritti nell'interesse superiore della giustizia.

La giustizia. E qui veniamo a un ulteriore punto nevralgico. Da un lato la sfiducia del cittadino nella giustizia come istituzione, dall'altro lato l'atteggiamento di certi magistrati nei confronti degli avvocati che, lungi dall'essere ritenuti "pari", molto spesso raggiungono livelli di irrispettosità di difficile giustificazione, come si evince dalla semplice lettura dei giornali.

Elementi che congiuntamente, o singolarmente, danneggiano anche la figura dell'avvocato, che nel perdere prestigio trascina con sé l'intero ' cast', in un rapporto bidirezionale. Di ciò si dovrebbe avere maggior contezza: se la magistratura perde prestigio, parimenti lo perde la professione forense, se perde prestigio la professione forense egualmente ne esce ammaccata la giustizia nel suo complesso, in un rapporto osmotico strettissimo.

Da qui se ne uscirebbe solo con l'aggiornamento della nostra Costituzione, inserendo in chiaro il capo relativo alla difesa professionale dei diritti, la cui mera enunciazione di principio non è (più) sufficiente come lo fu nel 1946, ove l'avvocatura era la professione più rispettata e ambita fra quelle ordinamentali.

Ma la giustizia ha anche un'altra grande responsabilità, che gioca un ruolo enormemente rilevante nella mortificazione della professione forense e, quindi, nell'intenzione di "fuga". Nell'offrire talvolta assist spettacolari alla pubblica amministrazione, la magistratura non si rende conto del danno "pubblico" che certe decisioni comportano: si pensi alle recenti decisioni con cui taluni giudici - lautamente pagati hanno stabilito che l'avvocato può lavorare anche gratis.

Questo, in estrema sintesi, il principio fissato nell'aver ritenuto legittimo il bando di una P. A. che richiedeva la collaborazione rigorosamente gratuita di avvocati esperti. Con buona pace dell'adeguatezza della retribuzione per il lavoro svolto, della legge sull'equo compenso, del decreto ministeriale e delle raccomandazioni euro unitarie. Con questi presupposti è comprensibile che anche i più innamorati della professione forense prendano atto della fine di un idillio e decidano di appendere la toga al chiodo.