Manca meno di un mese e mezzo all’election day del 12 giugno, quando circa 9 milioni di italiani saranno chiamati alle urne per il voto amministrativo e l’intero corpo elettorale sarà coinvolto nell’appuntamento con i referendum per la ‘giustizia giusta’, promosso da Lega e Partito radicale. In particolare saranno 980 i Comuni coinvolti (143 superiori a 15mila abitanti, di cui 26 capoluoghi, e 837 sotto i 15mila). Si tratterà di un doppio banco di prova per il Carroccio ma soprattutto per Matteo Salvini: il suo partito è in calo nei sondaggi, sotto di 6 punti rispetto a Pd e Fratelli d’Italia che si contendono il primo posto, ma lo stesso leader deve riprendersi dalla figuraccia in Polonia, tentare di recidere il vecchio legame strategico con Vladimir Putin, riacquisire potere e piena autorevolezza all’interno del partito. Come si riverbera tutto questo sulla partita referendaria?  Due settimane fa sembrava che Salvini avesse gettato la spugna, consapevole che la strada è molto più che in salita: «I primi 5 titoli dei tg sono sulla guerra – aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera – il sesto sul covid, il settimo sulle bollette. Parlare di separazione delle carriere dei magistrati è difficile: per questo preferisco parlare di casa, di risparmi e magari flat tax. Ma io spero di arrivare a maggio con il covid archiviato e la guerra ferma». Il covid c’è ancora anche se in forma un po' meno aggressiva, ma le nuove regole di comportamento dopo il 30 aprile riempiono la cronaca, e lo scenario bellico si complica ogni giorno di più. Inoltre, come sappiamo, la Corte Costituzionale, bocciando i quesiti cosiddetti ‘portagente’ –  ossia quelli su eutanasia, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati – ha di fatto frenato molto la spinta popolare verso le urne. Dall’altro lato si ci avvicina ai referendum nella totale assenza di informazione e dibattiti non solo nei tg, ma anche negli spazi di approfondimento. Dunque Salvini si arrende? In apparenza sembrerebbe di sì: basti notare che da Pasqua non ha fatto neanche un post facebook o lanciato un tweet sui referendum. Diversa sarebbe la situazione sui territori, come ci spiega il senatore leghista della commissione Giustizia Francesco Urraro, componente del Comitato ‘Io dico sì’: «Per noi la strada maestra per la riforma della giustizia sono i referendum e stiamo organizzando iniziative da nord a sud affinché il tema diventi sempre di più un patrimonio nella disponibilità del Paese». Il parlamentare è comunque consapevole delle difficoltà oggettive: «Noi avevamo chiesto di poter andare alle urne a fine maggio o aggiungere la data del lunedì 13, ma questo non ferma il nostro impegno, anzi». Lo stesso concetto ribadito dalla responsabile Giustizia del Carroccio, la senatrice Giulia Bongiorno, sempre più volto ufficiale della campagna: «La strada del vero cambiamento passa dai referendum». Ma siccome è quasi certo che il quorum non si raggiungerà, come deve muoversi la Lega? Il pensiero più comune tra gli analisti è quello secondo cui  proverà a dare almeno l’impressione di battersi fino all’ultimo per poi addossare le responsabilità della sconfitta al ministero dell’Interno che ha scelto, anche se di concerto con i partiti, la data balneare del 12 giugno. Ma intanto deve far il possibile almeno per salvare la faccia, e convincere innanzitutto Giorgia Meloni a sostenere non solo i referendum sul riforma del Csm e separazione delle funzioni ma anche quelli su legge Severino e voto degli avvocati sulle carriere dei giudici. Sarà di sicuro impossibile trascinarla su quello relativo alla custodia cautelare, impopolare tra gli stessi leghisti. E in tutto questo, come si colloca il Partito radicale? Chissà che non si stia pentendo dell’alleato leghista, che fin da subito gli ha giocato un brutto scherzo, con il mancato deposito delle firme in Cassazione, che di fatto ha privato il partito di Pannella di un accesso ufficiale a fondi e spazi televisivi. Ma è proprio sulla comunicazione che si gioca la partita storica dei radicali. Come ci dice la tesoriera Irene Testa «negare ai cittadini italiani il diritto di conoscere che si terranno il 12 giugno dei referendum epocali sulla giustizia,  non consentire che su questo nasca un dibattito e trovi accoglienza in sede pubblica  non rappresenta nient’altro che il perpetuarsi del regime antidemocratico che dagli albori della Repubblica sovverte subdolamente e intimamente il dettato costituzionale. Con il segretario del Partito radicale, Maurizio Turco, abbiamo fatto appello alle società di sondaggi di inserire nelle loro ricerche un semplice quesito: "Sai che a giugno si voteranno i referendum per la giustizia?"». Testa non ha torto, se guardiamo i dati pubblicati dall’Agcom e relativi al periodo 7-23 aprile: solo per fare qualche esempio, Tg1, Tg2, Tg3, Rainews24 hanno dedicato in totale ai quesiti poco più di 8 minuti, mentre al di fuori dei Tg, la televisione pubblica ha concesso alla campagna 7 minuti. I Tg Mediaset salgono di poco attestandosi in totale su 31 minuti, mentre extratg fanno registrare solo 2 minuti e mezzo. Va molto peggio con Cairo, che si ferma sotto i 2 minuti. Ma a dire di Marco Beltrandi, membro della segreteria del Partito radicale, già deputato della Vigilanza Rai, la situazione è ancora più grave: «Siamo dinanzi a una beffa e a un sistematico boicottaggio dei referendum sul sito dell’Agcom: sono state pubblicate tabelle intitolate alla ‘Campagna referendaria’. Spiace constatare che abbiano incluso tra l’informazione della campagna referendaria gli interventi, in voce o meno, in cui si parla di giustizia, Csm, riforma Cartabia, ma neppure si fa cenno  alle proposte referendarie. Cioè, tutti interventi in cui mai, dico mai, si è menzionato i referendum, la loro tenuta, il contenuto dei quesiti, ma quelli in cui solo alcuni temi sono paralleli a quelli referendari. Ma che nulla hanno a che vedere, ovviamente, con la campagna referendaria che sta a zero».