di FRANCESCO D’ERRICO

PRESIDENTE ASSOCIAZIONE EXTREMA RATIO

Il 27 ottobre del 1948 Piero Calamandrei, in un celebre intervento alla Camera, sottolineò che “ in Italia il pubblico non sa abbastanza - e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di esperimentare la prigionia, non sanno - che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. A distanza di più di settant’anni, queste parole sono ancora di grande attualità: nonostante gli istituti penitenziari rappresentino tutt’oggi “ l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta” (Filippo Turati, cit.) i più, in osservanza a una concezione di giustizia fondata esclusivamente sul paradigma afflittivo, sono ancora convinti che la pena inframuraria sia dotata di proprietà palingenetiche.

Anche per questo Alessandro Capriccioli, militante di Radicali Italiani e dal 2018 consigliere regionale del Lazio tra le fila di + Europa- Radicali, ha scritto “ Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” ( pubblicato di recente da People, con prefazione a firma di Luigi Manconi e Lucrezia Fortuna): per “ raccontare il carcere a chi non se ne è mai interessato”, per parlarne alla comunità “dopo aver visto”, per affrontare il tema a partire dalla sua esperienza sul campo. Da quando è stato eletto, infatti, Capriccioli ha scelto di svolgere il maggior numero possibile di visite ispettive nei luoghi dove si trovano costretti coloro che sono privati della libertà personale ( non solo nelle carceri ma anche nei Cpr e nelle Rems), dando corpo alla prerogativa di natura garantista concessa dall’art. 67 della legge sull’ordinamento penitenziario e riconosciuta, tra gli altri, ai consiglieri regionali, che permette di recarvisi, senza previa autorizzazione, col fine di verificare in prima persona le condizioni di detenzione.

Capriccioli, dunque, insieme alle sue collaboratrici Federica Delogu e Federica Salvati, considerando i poteri ispettivi non solo un diritto ma una “ precisa responsabilità” collegata al suo ruolo, dal 2018 al 2021 si è immerso tra i sommersi; tanto per “ accertare eventuali opacità” e dare segnali forti all’amministrazione quando necessario, quanto per capire, con spirito collaborativo, se ci fossero “ necessità, problemi, criticità sulle quali tentare di dare una mano”.

Pur essendo geograficamente limitato, l’itinerario offerto dal radicale permette di visualizzare nitidamente l’universo carcerario (con una non scontata attenzione anche alle questioni minorili e alla detenzione femminile) e di cogliere plasticamente le ragioni del suo fallimento. Nel diario, grazie a una riuscita coesistenza di diversi elementi (impressioni personali, riflessioni politiche e considerazioni giuridiche), si susseguono le descrizioni dei molti istituti visitati, e con esse quelle delle varie figure che li abitano, da un anziano malato e non autosufficiente che cammina “ con passo incerto”, alle donne recluse per reati di tipo associativo, con le quali “ nonostante la distanza” tra i mondi di provenienza, tra le culture che hanno ispirato le loro vite e quelle del consigliere, alla fine, “ci vuole poco a trovare argomenti comuni di dialogo”.

Secondo l’autore “ sono le cose minute a dare la misura della concretezza dei grandi ideali”; si potrebbe dire, in effetti, che l’abissale distanza tra il principio costituzionale dell’umanità della pena e l’aspra vita reclusa dal carcere sia misurabile soprattutto attraverso elementi di carattere tragicamente quotidiano e tangibile. D’altronde, “a che serve discutere di rieducazione se il cesso di chi dovrebbe essere rieducato è a mezzo metro da dove si mangia? Che senso ha parlare di recupero quando manca l’acqua calda?”, o, ancora, “ perché è così difficile parlare di diritto all’affettività delle persone detenute? Cosa c'entra l'astinenza sessuale con le pene previste dal codice penale?”.

Leggendo, episodio dopo episodio, emergono molti dei mali che affliggono il sistema penitenziario: la collocazione nell’estrema periferia delle strutture, una sistemazione extra- territoriale cui corrisponde, di fatto, anche una collocazione extra- ordinamentale; il sovraffollamento, cui fa chiaro riferimento il titolo dell’opera, e che è causato, tra le altre cose, dalle politiche proibizioniste in materia di stupefacenti (come ricordato nel libro, un terzo dei detenuti è recluso per violazione del T. U. sulle droghe); le strutture fatiscenti, gli spazi claustrofobici e inadatti allo svolgimento di attività utili alla risocializzazione dei condannati; l’evidente carenza di organico e di risorse; il tragico fenomeno dei suicidi (oltre 1200 negli ultimi vent’anni, tanti da indurre l’autore a definire il carcere una “ fabbrica dei suicidi”).

Conoscere il carcere, sostiene poi Capriccioli, è utile anche a chi, per sua fortuna, si trova al di là delle mura: “ visitare le carceri è una chiave di lettura della realtà, uno strumento imprescindibile” per capire il mondo di fuori. Comprendere per quali ragioni i penitenziari siano divenuti soprattutto un “ deposito”, un “ serbatoio di un “grumo di umanità dolente”, una “ discarica di marginalità”, è un passaggio necessario per decifrare la nostra società, un’attività che consente di individuare ciò che essa allontana ed esclude, quello che preferisce rimuovere per non dover affrontare a viso aperto i propri fallimenti, scegliendo troppo spesso di rispondere col diritto penale a questioni di natura sociale.

Capriccioli, così, si è convinto che sia necessario riflettere in termini di abolizione dell’opzione carceraria. Lo ripete più volte nel volume e lo sottolinea con forza nell’epilogo: il carcere è “ uno strumento che ha come scopo quello di infliggere dolore, afflizione e sofferenza alle persone; “per ragioni incomprensibili”, continua, “ pretendiamo che quel dolore, quell’afflizione e quella sofferenza consentano di rieducare”. E ancora: “ ritengo qualsiasi punto di vista che non si ispiri, in prospettiva, alla sua abolizione un punto di vista del tutto irragionevole”. La conclusione cui perviene il politico romano, invero, è la medesima cui giunse Altiero Spinelli nel ’ 49, quando sostenne che l’unica riforma carceraria da fare fosse l’abolizione del carcere (“ non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”).

Eppure è difficile, ad oggi, immaginare di poter fare a meno della carceralità come dispositivo ( e d’altronde anche Capriccioli, pur da una posizione chiaramente abolizionsta, parla di “ prospettiva”), anche se è evidente che l’esperienza carceraria, nella maniera in cui è stata gestita finora, abbia prodotto più danni che benefici. Il punto di partenza, in tal senso, mentre si riflette sull’elaborazione di un modello diverso, consiste nell’abbandono dell’attuale paradigma carcerocentrico, con l’obiettivo di dare corpo a un’istituzione penitenziaria compatibile con la Costituzione.

Il carcere dovrebbe diventare veramente l’extrema ratio; la privazione della libertà personale dovrebbe rappresentare l’unica reale limitazione imposta a chi è recluso, e non la prima di una serie infinita di altre ingiuste e inutili privazioni; le misure alternative dovrebbero cessare di essere un’opzione sostituiva della detenzione e divenire vere e proprie pene autonome, valorizzando al massimo la declinazione plurale dell’articolo 27 comma 2 della carta costituzionale (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”); si dovrebbe fare un utilizzo realmente residuale del diritto penale, per lasciarci alle spalle l’ossessione panpenalistica che ha caratterizzato, seppure con alcune differenze, gli esecutivi di ogni colore degli ultimi trent’anni. Nulla di tutto ciò sarà possibile se non muterà la percezione del Paese nei confronti del carcere. Proprio per questo, un libro come “ Tre metri quadri” rappresenta, senza dubbio, un prezioso tassello e merita la massima diffusione.