Sentite ciò che ha detto del presidente del Consiglio all’Espresso uscito domenica il senatore Pier Ferdinando Casini, che a dispetto dei suoi “soli” 66 anni, compiuti a dicembre scorso, è fra i più veterani del Parlamento, essendo approdato nell’ormai lontano 1983 alla Camera per diventarne peraltro presidente nel 2001. «La mitologia di Draghi di questi mesi - ha testualmente dichiarato - rischia di essere direttamente proporzionale alla demolizione nel prossimo futuro», precisando che ciò «non è un bene». «Non valuto la persona. Prevedo i percorsi, che purtroppo sono questi. Monti è stato mitizzato e poi ingiustamente demonizzato. Le stessa cosa è successa a Renzi: dagli altari alla polvere. Tipico», ha aggiunto Casini. Poiché lo conosco da una vita - avendolo amichevolmente frequentato prima ancora che diventasse deputato, quando da giovane consigliere nazionale della Dc si divertiva a raccontarmi delle riunioni di corrente alle quali partecipava, mimando formidabilmente l’allora segretario del partito Flaminio Piccoli che si innervosiva alle sue osservazioni critiche - vi assicuro che la previsione negativa del senatore di Bologna sul futuro politico di Draghi non nasce dal contributo che il presidente del Consiglio può avere dato, volente o nolente, al fallimento in extremis della candidatura dello stesso Casini al Quirinale. Ve lo assicuro anche se Pier Ferdinando - Pierfrdy per gli amici e Pierfurby per i meno amici - può essersi prestato a qualche sospetto del genere definendo nella stessa intervista all’Espresso «una distrazione» quella avuta da Draghi nella recente corsa al Quirinale, prenotandovisi in qualche modo con quella immagine del «nonno a disposizione» della collettività assegnatasi nella conferenza stampa di fine anno, 2021. Quella «disponibilità» finì per confliggere con le candidature pur così diverse nello stile, oltre che in senso politico, di Silvio Berlusconi e di Casini appunto: tanto invasivo il primo, fra vertici del centrodestra e telefonate di promozione dell’amico Vittorio Sgarbi a parlamentari di ogni colore e sesso, quanto discreto il secondo. Che si inabissò in un lungo silenzio, pur attivissimo -come sempre, del resto- nei contatti personali. Da quella «distrazione» peraltro Casini ha assolto Draghi riconoscendogli di avere ripreso subito in mano la guida e la sorte del governo, riportandolo sulla strada giusta delle emergenze peraltro aumentate nel Paese, essendo sopraggiunta la guerra di Putin all’Ucraina con tutte le implicazioni anche di politica interna. È evidente che il chiaro, forte atlantismo del presidente del Consiglio, antiputiniano e filo-ucraino, è vissuto con una certa sofferenza nella maggioranza. Dove, in particolare, si è un po’ ricomposta quell’assonanza un po’ “sovranista” fra il grillino Giuseppe Conte e il leghista Matteo Salvini, clamorosamente naufragata nell’estate del 2019 nell’aula del Senato. Dove Conte da presidente del Consiglio parlò di Salvini, che gli sedeva accanto da vice presidente e ministro dell’Interno, come un pubblico ministero del suo imputato. Sono i giochi, gli scherzi, le diavolerie, i capricci, come volete chiamarli, della politica. Il bello è - delle cose dette da Casini a proposito del presidente del Consiglio in carica - che Draghi ha mostrato di esserne pienamente consapevole in una intervista contemporaneamente uscita sul Corriere della Sera. Dove egli ha detto - pur in una visione ottimistica dell’azione di governo e della solidità della maggioranza, esortata a non sentirsi in quella «camicia di forza» che i partiti danno spesso l’impressione di indossare - di non volere e potere neppure «immaginare» il suo futuro quando avrà portato a termine il lavoro affidatogli dal presidente della Repubblica, e confermatogli con la fiducia dalle Camere, cioè sino alla conclusione, ordinaria o anticipata che possa rivelarsi, della legislatura cominciata nel 2018. Un lavoro, peraltro, rivelatosi - ha confessato Draghi - più difficile e pesante di quello svolto alla presidenza della Banca Centrale Europea. «Bisognerebbe che i presidenti del Consiglio fossero tutti eletti», non nominati fuori dal Parlamento e dai partiti come gli è capitato in condizioni di emergenza, ha detto Draghi. Le piacerebbe essere eletto?, gli ha chiesto allora il direttore del Corriere. E lui: «No. È estraneo alla mia formazione e alla mia esperienza. Ho molto rispetto per chi si impegna in politica e spero che molti giovani scelgano di farlo alle prossime elezioni, alle quali intendo tuttavia partecipare come ho sempre fatto: da semplice elettore». Draghi insomma non si sente più nonno della Repubblica. come è stato temuto per qualche settimana nei mesi scorsi immaginandolo già al Quirinale, ma un mezzo Cincinnato per indifferenza al potere. Anche se antipatizzanti ed avversari lo considerano e rappresentano furbescamente in corsa per la guida della Nato.