Riforma blanda? Nuove norme sul Csm all’acqua di rose, o comunque velleitarie? Be’, insomma, non è chiaro. Non è detto. Magari sarà confermata nelle prossime ore la tendenza apparsa nell’ultima settimana di trattative, che ha visto i partiti e la guardasigilli Marta Cartabia esprimersi positivamente anche su norme molto incisive, per i magistrati, come l’istituzione del nuovo “fascicolo delle performance” su cui basare valutazioni e incarichi di vertice. Eppure c’è una strana, particolare suscettibilità dell’Anm, e di settori della magistratura anche estranei alle “solite” correnti, rispetto a una materia sì assai rilevante ma sorprendente per l’allarme che suscita: il riconoscimento, per gli avvocati, del diritto di votare nei Consigli giudiziari anche sulle valutazioni di professionalità dei giudici. Nonostante la formulazione prudente, ingegnosa quanto attentissima ad allontanare anche solo il sospetto di strumentalizzazioni vendicative da parte del singolo avvocato, la norma ha messo in agitazione non solo l’Anm, cioè il “sindacato”, ma anche il Csm in carica, che l’ha bocciata, e ha ribadito di intravedervi pericoli per l’autonomia delle toghe. Non solo. Come il Dubbio ha pure raccontato puntualmente nei giorni scorsi, si moltiplicano i casi in cui i difensori fanno i conti con sconcertanti segnali di ostilità provenienti dalla controparte togata. Dal caso del penalista di Potenza Antonio Murano, indagato e perquisito anche corporalmente dopo aver chiesto e ottenuto un legittimo impedimento per malattia, alla vicenda dell’avvocato di Varese Corrado Viazzo, che ha visto piombare sul luogo in cui stava per essere cremata sua madre addirittura i carabinieri, arrivati a verificare, per ordine della Procura di Brescia, che il professionista non fosse andato a cercare nell’evento luttuoso un falso pretesto per disertare le udienze. È tutto un fiorire di storie incredibili, di diffidenze degli uffici inquirenti o di singoli sostituti, un improvviso timore per la funzione dell’avvocato, a cui bisogna opporre una guerra preventiva. Com’è possibile, in un tempo in cui la magistratura si trova casomai a dover fare i conti con una riforma meno “annacquata” del previsto, riempita di contenuti anche più temibili, per le toghe, rispetto al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari? Perché il Foro, la controparte tecnica con cui la magistratura dovrebbe condividere il governo autonomo, sembra assumere sempre più, soprattutto agli occhi di alcuni pm, i tratti di una minaccia? È difficile rispondere, se si considera quanta strada l’avvocatura abbia pazientemente dovuto percorrere, a partire dalle battaglie per ottenere appunto il diritto di voto nei Consigli giudiziari. Battaglie, va ricordato, condotte non in contrapposizione alla magistratura, ma con tutt’altro spirito, fin da quando nel 2016 il Cnf, con il presidente Andrea Mascherin, disegnò le riforme dei “mini Csm” e del riconoscimento costituzionale dell’avvocato. L’istituzione forense scelse una prospettiva chiara: “Un’avvocatura forte, libera e indipendente è la sola controparte tecnica di cui”, per citare Mascherin, “la magistratura non ha motivo di diffidare, e anzi una dialettica privilegiata fra avvocatura e magistratura assicura l’autonomia dell’intera giurisdizione. Non ci fosse il Foro, viceversa, a fare da contrappeso costituzionale dell’ordine giudiziario, sarebbe assai più elevato il rischio di una intrusione della politica nell’autonomia dei magistrati. Noi avvocati”, è il senso del discorso, “siamo una garanzia per i giudici”. Un messaggio chiaro, che ora, con la norma sui Consigli giudiziari, trova finalmente la sospirata realizzazione. Ma perché un quadro del genere, che dovrebbe descrivere un futuro di più solida autonomia dell’intero sistema giustizia, viene invece interpretato da alcuni settori della magistratura come motivo di allarme? Una risposta forse esiste. Va scovata nelle incrostazioni del rapporto fra magistratura e politica. Rapporto ambiguo, alterato da un gioco menzognero, da una contrapposizione che poi trascende in connivenza, in reciproca e opportunistica copertura. Pensiamo solo al lungo silenzio della politica sulle degenerazioni del correntismo: serviva davvero il caso dell’hotel Champagne, per scoprire che le nomine vengono concordate ben lontano dal plenum del Csm, e che vedono confondersi interessi e accomodamenti estranei al rilievo costituzionale dell’organo di autogoverno? No, che non serviva. Ma per lustri la politica ha fatto finta di nulla. Le ha fatto comodo ignorare il problema. Quando è esploso, non ha potuto fare a meno di occuparsene. Certo una politica del genere, fiaccata da convenienze ma anche da timori, dalla cattiva coscienza sulla questione della giustizia, fa comodo eccome, alle toghe. Molto più difficile confrontarsi con l’avvocatura. In cui pure non mancano le fragilità, le contraddizioni, i casi di scorrettezza. Ma che nel suo insieme vanta, al pari della magistratura, una forza legata alla missione civile, un orgoglio radicato anche nella matrice individualistica della professione eppure corroborato dal ruolo sociale altissimo, come quello dei giudici, che l’avvocatura riveste. Ecco, l’avvocatura è un brutto cliente, se la si vuol prendere dal verso peggiore. È un interlocutore serio, competente, con cui sarà più difficile giocare alle reciproche, complici coperture. Eppure gli avvocati possono rappresentare il futuro della magistratura, l’alleanza per il riscatto, la controparte con cui riconquistare autonomia e dunque autorevolezza. Non riconoscere una prospettiva del genere rivela l’indisponibilità a guardare avanti, la paura di riforme vere, un conservatorismo sindacalista sterile e miope. Mandare i carabinieri alla cremazione della madre di un avvocato non ha senso. È un insulto non tanto alla dignità di quel professionista ma all’intelligenza dei magistrati.