La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 74, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Messina, nella parte in cui stabilisce che il giudizio sulle richieste di riabilitazione e quello di valutazione dell’esito dell’affidamento in prova si svolgano obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, ovvero senza specifici approfondimenti sulla questione di fatto prospettata. Ma il fulcro di questa decisione, come ha relazionato il giudice Francesco Viganò, è il principio della ragionevole durata del processo. In sostanza, il rito “de plano” non solo non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, ma assicura una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi.

Il 18 maggio 2021 è pervenuta alla Consulta l’ordinanza del 5 marzo 2020 dove il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato d’ufficio questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1- bis, del codice di procedura penale, «in relazione al giudizio di riabilitazione ex artt. 178 e ss. c. p. e 683 c. p. p.», nella parte in cui stabilisce che quest’ultimo si svolga obbligatoriamente nelle forme del rito cosiddetto “de plano”, in riferimento agli artt. 24, 27, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu).

In sostanza il Tribunale di sorveglianza ha sollevato la questione della violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, poiché le disposizioni censurate obbligherebbero il giudice a decidere con un’ordinanza pronunciata de plano, e dunque in assenza del contraddittorio tra le parti. In sintesi il giudice ritiene che la previsione di un procedimento semplificato, a contraddittorio meramente “cartolare”, avanti al tribunale di sorveglianza nei giudizi di riabilitazione e di valutazione sull’esito dell’affidamento in prova leda il diritto di difesa delle parti, la funzione rieducativa della pena, i principi del giusto processo, nonché – per ciò che concerne la valutazione dell’esito dell’affidamento in prova – il principio di eguaglianza in relazione al diverso regime processuale previsto per giudizi assimilabili per ratio e per contenuto.

Per la Consulta, le questioni non sono fondate. Secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, nella configurazione degli istituti processuali il legislatore gode di ampia discrezionalità, censurabile soltanto nei limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte operate. Ciò vale anche rispetto a discipline processuali che abbiano una funzione acceleratoria dei tempi processuali.

La Consulta sottolinea che il giudizio di sorveglianza è, oggi, notoriamente afflitto da endemici ritardi nella gestione dei carichi processuali: dall’inizio della vicenda esecutiva – ove si registrano pressoché ovunque lunghissimi tempi di smaltimento delle istanze di misure alternative successive alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., con conseguente mantenimento di persone condannate in via definitiva in uno stato di “limbo” giuridico destinato, a volte, a durare anni prima che l’esecuzione della pena abbia in concreto inizio, all’interno o all’esterno del carcere –; sino alle battute finali dell’esecuzione penale, nel cui ambito si collocano i provvedimenti relativi alla riabilitazione e alla valutazione dell’esito dell’affidamento in prova, oggetto delle questioni esaminate in questa sentenza stessa.

Infatti, nel caso di specie, la Consulta osserva che l’anticipazione di una provvisoria decisione ad opera del giudice in assenza di contraddittorio ha, nell’ottica del legislatore, semplicemente lo scopo di consentire una rapida definizione di procedimenti in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi.

Inoltre, la Consulta sottolinea che l’eventuale provvedimento negativo del giudice nella fase “de plano”, d’altra parte, «non determina di per sé alcuna conseguenza pregiudizievole per il condannato, dal momento che la giurisprudenza di legittimità considera tale provvedimento non eseguibile sino alla scadenza infruttuosa del termine per l’opposizione, ovvero sino alla sua conferma nell’udienza ex art. 666 cod. proc. pen. conseguente all’opposizione stessa».