Pietro Batacchi, direttore della Rivista italiana di difesa, spiega che «la pace come la conoscevamo prima non esiste più» e che l’aumento delle spese militari è giustificato dal fatto che «l’Ucraina ci ha dimostrato l’importanza di una macchina militare efficiente con soldati addestrati e capaci».

Come si è arrivati alla richiesta di aumento delle spese militari fino al due per cento del Pil?

Già da molto prima della guerra in Ucraina, la Nato aveva posto come obiettivo per i membri il raggiungimento del 2 per cento del Pil per le spese militari entro il 2024. E la ragione è molto semplice: ci muoviamo in un sistema internazionale sempre più competitivo, dove c’è competizione anche nei periodi di pace. E la competizione si gestisce attraverso strumenti militari moderni e tecnologicamente all’avanguardia. Di conseguenza è chiaro che bisogna investire, perché “non si fanno le nozze coi fichi secchi”.

Se l’allarme è arrivato molto prima della guerra in Ucraina, significa che il conflitto era in qualche modo prevedibile e non è stato fatto abbastanza per impedirlo?

Di certo il fatto che questo obiettivo fosse stato identificato prima dell’invasione russa dell’Ucraina la dice lunga su quanto il sistema ti costringa non ad armarti, attenzione, ma a essere competitivo. E per essere competitivo servono strumenti militari capaci di garantirti deterrenza e credibilità politica. Per farlo, tali strumenti devono essere all’avanguardia e li si può ottenere soltanto attraverso un aumento delle spese. A quando risalgono le prime avvisaglie su un sistema che necessitava di una corsa a strumenti sempre più avanzati? L’Ucraina ha fatto vedere all’opinione pubblica in generale quanto siano importanti gli aspetti relativi a difesa e sicurezza, ma per avere un quadro della situazione bastava leggere la National Defense Strategy americana del 2018: c’era scritto chiaro e tondo che si stava andando verso un mondo sempre più insicuro e competitivo dove il fattore militare e la politica di potenza stavano tornando determinanti. Tanto è vero che gli americani parlano di «continuum» tra competizione, crisi e guerra. La pace come la conoscevamo prima non esiste più.

Un’espressione forte: come si è arrivati a non sapere più cosa vuol dire pace?

Perché la competizione non riguarda più solo i rapporti tra amici e nemici, ma anche tra amici. E, di nuovo, la ragione è molto semplice: nel mondo siamo sempre dipiù, i bisogni sono sempre maggiori, ma le risorse sempre più scarse.

Dal punto di vista italiano, cosa significa per il nostro paese un tale aumento delle spese militari?

Innanzitutto occorre dire che il governo Draghi ha preso di petto la situazione e sembra voler rispettare gli impegni presi dall’Italia. L’incremento dovrebbe servire, a mio avviso, a garantire l’efficienza e il mantenimento in efficienza dei mezzi in servizio. Quindi quei soldi saranno distribuiti soprattutto in spese di servizio e addestramento. L’Ucraina ci ha dimostrato l’importanza di una macchina militare efficiente con soldati addestrati e capaci. Poi c’è il capitolo degli investimenti e dell’ammodernamento in tecnologie cosiddette disruptive, cioè innovative.

In quali settore occorre un ammodernamento?

Per rimanere competitiva, l’Italia deve rafforzare il proprio vantaggio tecnologico nei confronti dei competitor. Siamo già competitivi nella costruzioni di radar, sistemi elettronici ed elicotteri. Dunque occorre rafforzare questi strumenti per evitare di perdere competitività. Al tempo stesso bisogna concentrare parte degli investimenti sugli aspetti più critici, ad esempio il futuro sistema di combattimento aereo, il famoso “tempest”, che è il programma di ammodernamento più importante delle forze armate italiane, e sul futuro “carro armato europeo”, che è un altro strumento fondamentale inserito nella logica di un sistema di combattimento terrestre.

A proposito di Europa, pensa che l’aumento delle spese militari debba rientrare in un più generale sistema di difesa comune europea?

È fondamentale che sia così. L’Italia non ha alternative a un orizzonte europeo, compreso sulla questione difesa, perché noi come tutti gli altri non abbiamo le spalle larghe in termini strategici. Insomma, non c’è alternativa a una politica di difesa europea comune e competitiva.