Centosettantacinque anni di prigione, 150 più di Albert Speer, ministro degli armamenti del Terzo Reich e di Baldur von Schirach, capo della gioventù hitleriana che a Norimberga se la cavarono con vent’anni. Il castigo americano di Julian Assange che, salvo miracoli, verrà presto estradato negli Stati Uniti, è una pagina cupa per la democrazia occidentale, una rappresaglia politica travestita da diritto internazionale, una vendetta meditata e crudele. La sua vita ora è nelle mani di Priti Patel, ministra degli Interni e anima nera del governo Johnson, spetta a lei dare il via libera per l’estradizione, una pura formalità dicono da Londra. Dopo sette anni di esilio nell’ambasciata dell’Ecuador e tre di reclusione in un carcere britannico, la sua parabola sembra dunque giunta al termine.

Oltreoceano lo accusano di spionaggio per aver diffuso migliaia di cablogrammi secretati sulle guerre in Afghanistan e in Iraq e per aver rivelato l’identità di alcuni agenti segreti statunitensi nei paesi mediorientali. Da quei documenti emersero gli abusi commessi dai marine, i massacri di civili innocenti, i bombardamenti delle abitazioni, e i tentativi di insabbiare quei crimini. Censura e guerra, un binomio indissolubile come ci ricordano le cronache quotidiane dal fronte ucraino e le migliaia di arresti di oppositori russi che manifestano contro l’operazione militare. Chi contesta le purghe del Cremlino, i pestaggi e i sequestri, gli omicidi misteriosi dei giornalisti non allineati al nazionalismo russo, non può voltare la testa dall’altra parte.

Il destino di Assange è quello di tutti noi, riguarda la libertà di parola e l’indipendenza del giornalismo “cane da guardia” del potere come dicono i manuali. Assange non è un personaggio simpatico, i suoi metodi di inchiesta sono discutibili e spregiudicati ed è vero che ha messo in pericolo la vita degli 007 Usa rivelandone le identità. Ma è il simbolo di un’informazione libera e svincolata dagli interessi materiali dei governi e degli Stati, persino brutale nei suoi metodi a metà tra la pirateria e l’ intelligence parallela (Bradley Manning sottrasse i cablogrammi del Pentagono con un espediente degno di una spia di Hollywood, facendo cioè finta di scaricare su un disco un album di Lady Gaga).

Criticare la Russia di Vladimir Putin e la sistematica repressione del dissenso è sacrosanto, la propaganda di guerra, - che viaggia a pieno regime da entrambi gli schieramenti - a Mosca è però diventata un cappio al collo, i corrispondenti stranieri sono quasi tutti partiti dopo le minacce di arresto per chi avesse diffuso “fake news”, o meglio, quelle che il Cremlino ritiene tali. I redattori di Russia Today e altre testate governative devono invece recitare le veline di guerra per non avere conseguenze. L’Occidente s’indigna a ragione per la repressione feroce in corso in Russia, chiede garanzie e tutele per la libertà d’espressione e di parola, invoca lo Stato di diritto, dipingendo Putin come un satrapo vizioso che fa terra bruciata di qualsiasi voce critica. Tutto vero. Per criticare, però, non basta alzare la voce, bisogna anche essere credibili.

Altrimenti si presta al fianco alle becere speculazioni dei cosiddetti neutralisti, di quelli che “né con la Russia, né con l’Ucraina” e per i quali è stata la Nato con i suoi burattini di Kiev a provocare l’escalation militare. In molti hanno messo in relazione la vicenda di Assange a quella di Marina Ovsyannikova, la giornalista russa arrestata dopo aver mostrato in diretta tv un cartello contro la guerra: la multa di 30mila rubli che le hanno affibbiato dimostrerebbe che, in fondo, Putin è molto più clemente con i reporter ribelli del Dipartimento di Stato Usa.

Un paragone che trasuda malafede (il fondatore di Wikileaks ha comunque violato dei segreti di Stato, Ovsyannikova si è solo esibita in un flash- mob televisivo) ma che pare aver eccitato l’anti- imperialismo da salotto, genere tornato in voga dallo scoppio del conflitto ucraino, Ignorare la condanna a morte (cos’altro sono 175 anni di prigione?) di Assange e tuonare contro il regime liberticida di Mosca è una contraddizione che non ci possiamo permettere.