La cautela, poi nel caso specifico, si impone perché chi scrive ha fatto parte del collegio difensivo davanti alla stessa Consulta e quindi, come tutti coloro che si affezionano alle proprie creature, rischia di cedere a valutazioni partigiane. Il lettore è dunque avvertito. Per questo motivo, più che una disamina dei singoli profili argomentativi trattati dalla corposa sentenza, ci si limiterà a qualche considerazione generale. Si deve, innanzitutto, premettere che questa è la quarta iniziativa referendaria in materia di responsabilità dei magistrati. Solo la prima, risalente al 1987, in occasione del referendum promosso dai radicali sull’onda delle note vicende legate al caso Tortora, fu coronata da successo. Le tre successive, compresa quella di ieri, sono state invece bocciate dalla Corte, sulla base di argomenti che, in buona misura, ricorrono in ognuna delle citate occasioni. L’obiettivo dei promotori era quello di determinare una responsabilità diretta dei magistrati, cioè di consentire al cittadino che si ritenga leso dagli atti compiuti nell’esercizio della giurisdizione, di chiamare direttamente in giudizio il singolo magistrato, anziché dover percorrere obbligatoriamente la via, oggi prevista, di rivolgersi allo Stato, il quale poi, in alcuni casi, avrebbe l’obbligo di rivalersi sul responsabile. Ora, nel giudizio della Corte, il risultato auspicato non avrebbe potuto realizzarsi mediante questo referendum abrogativo. Gli effetti dell’abrogazione, infatti, secondo i giudici della Consulta non avrebbero potuto essere quelli auspicati dai promotori, e anzi quegli effetti non sarebbero stati nemmeno chiaramente intellegibili, alla luce della formulazione del quesito, così da inquinare la genuinità del voto degli elettori, lasciati in uno stato di incertezza. Quesito impropriamente manipolativo e non chiaro, dunque. L’argomento principale per giungere a questa conclusione è che una volta eliminate le norme abrogate, il sistema risultante non avrebbe comunque previsto la responsabilità diretta del magistrato, in mancanza di una disciplina ricavabile altrove e capace di “espandersi” e applicarsi anche al caso di specie. Non è possibile né è il caso di entrare ulteriormente nei dettagli. Ma questo è certamente l’argomento principe usato dalla Corte. Colpisce, però, che il percorso argomentativo sul punto, adottato ieri e già anticipato nei due casi precedenti che hanno subìto la stessa sorte, appaia diverso da quanto ritenuto dalla Corte in occasione del referendum del 1987. In quel caso, infatti, oggetto del referendum era esattamente una disciplina speciale per la responsabilità dei magistrati, la cui abrogazione avrebbe potuto porre gli stessi problemi di individuazione della normativa di risulta applicabile. In quel caso però la Corte ritenne (sentenza 26/ 1987) che l’abrogazione dello “specifico regime che, allo stato attuale della legislazione, contraddistingue la responsabilità civile dei magistrati”, non impedisse il via libera al referendum. La Corte ritenne insomma che non ci fossero ostacoli alla disciplina generale con la quale il legislatore aveva dato attuazione all’articolo 28 della Costituzione, il quale prevede la responsabilità di tutti i pubblici funzionari, ivi compresi i magistrati. Né la Corte si dimostrò ignara del fatto che quel referendum, equiparando la responsabilità dei magistrati a quella degli altri pubblici funzionari, potesse, astrattamente, porre dei problemi di legittimità costituzionale della normativa di risulta. In quanto, come già affermato in una precedente decisione ( 2/ 1968), “la peculiarità delle funzioni giudiziarie (…) suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati” (cioè un trattamento speciale). Malgrado ciò, però, la Corte, rimanendo fedele alla propria giurisprudenza che distingue il giudizio di ammissibilità da quello di legittimità costituzionale, rinviò il problema a un futuro intervento del legislatore o della Corte. Il che consentì al corpo elettorale di pronunziarsi. Gli effetti di quel referendum sono stati dapprima sospesi in sede di promulgazione e poi modificati con l’introduzione della legge che nella sostanza si applica ancora oggi. Ecco, la sensazione, a prima lettura e con tutte le cautele del caso, anche alla luce dei precedenti più ravvicinati, è che nel nuovo giudizio la Corte abbia ritenuto di non poter applicare l’approccio del 1987, forse anche in considerazione del fatto che la responsabilità diretta dei magistrati avrebbe ormai costituito una soluzione troppo eccentrica rispetto al modello che il legislatore ha scelto con la riforma del 1988. La domanda, che a questo punto rimane, è se ormai, nel contesto della legislazione vigente, sia tecnicamente formulabile un quesito in grado di superare il vaglio di ammissibilità. Se si esclude, infatti, che esista nel sistema una disciplina capace, come ritenuto nel 1987, di applicarsi ai magistrati una volta prodottosi l’effetto abrogativo, anche l’ipotesi estrema di un’abrogazione totale della legge sulla responsabilità civile dei magistrati apparirebbe molto probabilmente impraticabile. Là dove, nel 1987, il referendum riguardò proprio l’abrogazione totale della disciplina speciale allora prevista.