Giugno 1956. Da una parte ci sono Enzo Catani e Sergio Masi, due operai di Prato finiti in carcere per aver distribuito volantini sindacali. Dall’altra Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica, eletto da soli cinque mesi alla guida della Corte Costituzionale appena formata. In mezzo un diritto, un principio sancito dall’articolo 21 della Carta, che con la sentenza numero 1 del 5 giugno la Consulta decide di rendere vincolante: la libera manifestazione del pensiero. Per arrivarci ci erano volute 30 ordinanze. Le prime due del pretore di Prato Antonino Caponnetto, per conto di Masi e Catani, e a seguire tutte le altre. Tutte questioni finite sul tavolo della Consulta con uno scopo preciso: dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 113 del Testo unico di pubblica sicurezza, cioè la norma di matrice fascista che subordinava ad autorizzazione la distribuzione di avvisi o stampati nella pubblica strada (così come “l’affissione di manifesti o giornali, ovvero l’uso di alto parlanti per comunicazioni al pubblico”). Ebbene, i giudici non si limitano a farne carta straccia. Con quella prima, storica, sentenza riescono a legittimare il proprio operato, ad affermare il proprio potere di controllo sulle leggi anteriori alla Costituzione e a tagliare corto con il passato. Riescono cioè a completare il passaggio alla stagione democratica, avviando una bonifica della legislazione fascista. E lo fanno in modo netto, chiaro. Stabilendo che sì, un diritto fondamentale include sempre il limite al suo esercizio, ma che tale limite non può essere fissato da una autorità dotata di «poteri discrezionali illimitati tali cioè che, indipendentemente dal fine specifico di tutela di tranquillità e di prevenzione di reati, il concedere o il negare l’autorizzazione può significare praticamente consentire o impedire caso per caso la manifestazione del pensiero». Proprio così recita la prima pronuncia della Consulta, una tra quelle che i giudici della Corte hanno selezionato per la rubrica “Sentenze che hanno cambiato la vita degli italiani”. Dalla libertà di espressione e religione, passando per sciopero e aborto, fino all’integrazione dei cittadini stranieri: podcast e brevi pillole video, un racconto con le voci dei giudici costituzionali su alcune decisioni della Corte che, dal 1956 al 2021, hanno inciso profondamente nella vita delle persone e delle istituzioni. «Tappe di un cammino di crescita del nostro Paese grazie all’attuazione della Costituzione e ai suoi valori», per accorciare la distanza con il cittadino e ripercorre ognuno di quei momenti in cui un diritto ha trovato la sua affermazione definitiva.

ADULTERIO, 1968

Che a ben vedere era un’affermazione dal basso. Che veniva da dentro il Paese. Con Catani e Masi, «due operai che non sapevano nulla di Costituzione - scrive il professore Maurizio Fioravanti - ma che sentivano di lottare per qualcosa di giusto, rappresentando così qualcosa che è sempre esistito nella storia delle costituzioni, ovvero il sentimento popolare per la Costituzione». Sarebbe avvenuto lo stesso nel 1968, quando alle donne viene finalmente riconosciuto il più classico dei diritti: l’uguaglianza di fronte alla legge. Una parificazione concreta, nel trattamento delle stesse fattispecie, come nel caso dell’adulterio. Un reato allora punibile con una pena fino a un anno di reclusione, se commesso dalla moglie. Mentre il codice non puniva la relazione adulterina del marito, se non in caso di concubinato. Una disparità che la Consulta decide di spazzare via affermando la dignità della donna. E aprendo la strada a una stagione di straordinari cambiamenti: dalla legge sul divorzio nel 1970, alla riforma del diritto di famiglia nel 1975, fino alla legge sull’aborto nel 1978 e all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981. Quante sentenze, quante storie nel mezzo. La numero 126 del dicembre 1968 non è solo il punto di partenza. È il punto di arrivo che racconta l’evoluzione della coscienza sociale italiana, a partire dal 1961, quando invece la Consulta si era pronunciata sulla medesima materia dichiarando la norma sull’adulterio compatibile con la Costituzione. Cosa era cambiato? Era avvenuto il ‘68, spiega il giudice costituzionale Augusto Antonio Barbera, il vento della ribellione era servito per spostare la barra affinché la Corte operasse un diverso bilanciamento: nel ‘61 tenendo conto eccessivamente nell’unità familiare, e nel secondo caso della dignità della donna.

DIRITTO ALLO SCIOPERO, 1969

Quello stesso vento continua a soffiare, e porta un anno dopo alla sentenza numero 31 del 1969 sul diritto allo sciopero. Con la lotta dei lavoratori era emersa infatti una particolare contraddizione; tra l’affermazione costituzionale dello sciopero come diritto da un lato, e la vigenza di norme repressive risalenti al periodo fascista dall’altro. In quel contesto, spiega la vicepresidente della Corte Silvana Sciarra, quella della Consulta risulta «una sentenza moderna», che si inserisce in quel filone della giurisprudenza con la quale la Corte «cerca di non essere supplente del legislatore». Il caso di specie riguardava alcuni vigili urbani che avevano scioperato, e la questione verteva sull’abbandono dei pubblici uffici. La Corte interviene sul vuoto normativo e opera alcuni limiti, sancendo che il diritto allo sciopero si esercita sempre nell’ambito delle leggi che lo regalano, ma è anche un diritto da rendere compatibile con l’esercizio di altre libertà. Senza ledere la fruizione degli interessi generali della collettività nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, e garantendo alcune “prestazioni minime”. «Una volta ammesso, com’è indubbio - scrive la Corte - che la libertà di sciopero, per rimanere nell’ambito corrispondente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costituzionalmente garantite, com’è quella consentita a quanti non aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter continuare a fruire dei beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o ad occupazioni abusive, se ne deve dedurre che, già pur sotto questo circoscritto punto di vista, non sia contestabile l’esigenza di limitare il diritto in parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare il rispetto degli interessi che potrebbero riuscire compromessi da scioperanti indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l’impiego di congrui mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo ai valori fondamentali legati all'integrità della vita e della personalità dei singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella della sicurezza verso l’esterno, costituisce la prima ed essenziale ragion d’essere dello Stato».

ABORTO, 1975

Di certo ci volle ancora qualche anno per arrivare alle conquiste degli anni Settanta, prima con la legge sul divorzio e poi, nel 1978, con la 194 che depenalizzava l’aborto. Lo abbiamo detto, la sentenza sull’adulterio aveva aperto la strada ad altre pronunce storiche. Ma è quella del 1975 a segnare il punto di svolta nel caso dell’aborto. Ricapitoliamo. Prima del ‘78 l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata sempre reato. Nel ‘75, l’allora giovane militante radicale Emma Bonino si autoaccusa di procurato aborto e viene arrestata insieme all’allora segretario del partito Gianfranco Spadaccia e alla segretaria della Cisa Adele Faccio. Scoppia il caso, il dramma invisibile dell’aborto clandestino si pone al centro del dibattito politico e dell’attenzione pubblica. La proposta referendaria dei Radicali non arriva alle urne. Ma il bisogno di riformare la normativa si era già posta al legislatore con la sentenza numero 27 del 18 febbraio 1975 con cui la Consulta, pur ritenendo che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale, consente il ricorso all’interruzione di gravidanza «quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre». «Fu una sentenza che ci immise in un mondo nuovo, e non solo per il tema che trattava», spiega l’attuale presidente della Corte Giuliano Amato. La decisione «ebbe un significato perché aprì il mondo delle scelte che noi facciamo - aggiunge - laddove prima la legge decideva per noi. Fu la sentenza che ci immise in un mondo in cui la nostra libertà coincide con la nostra responsabilità».

INTEGRAZIONE DEI CITTADINI STRANIERI, 2015

«Poiché le attività svolte nell’ambito dei progetti di servizio civile nazionale rappresentano diretta realizzazione del principio di solidarietà, l’esclusione dei cittadini stranieri dalla possibilità di prestare il servizio civile nazionale precluderebbe il pieno sviluppo della persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e, di conseguenza, di sviluppare il valore del servizio a favore degli altri e del bene comune». Per concludere facciamo un bel salto in avanti e arriviamo al 2015, alla sentenza numero 119 della Corte Costituzionale. A sceglierla per la sua particolare rilevanza è l’ex presidente della Consulta e attuale guardasigilli Marta Cartabia. La quale spiega come la Corte sia intervenuta a più riprese sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione dei cittadini stranieri nel nostro tessuto sociale. Anzitutto vigilando sulle leggi che riguardano la regolazione dei flussi nel nostro territorio, e in diversi occasioni rimuovendo motivi di discriminazione contro i cittadini stranieri, come quando ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’aggravante di clandestinità che puniva più severamente i non cittadini per la stessa fattispecie di reato. La Corte ha contribuito ad estendere i diritti sociali dei migranti, soprattutto quelli riguardanti i bisogni essenziali della persona in materia di salute e assistenza. Ma la sentenza del 2015 è così importante perché riguarda una storia che seppure piccola è di enorme portata. È il caso di un cittadino pakistano, il quale chiedeva di poter prestare servizio civile volontario per svolgere attività per il bene comune. La legge riservava infatti il servizio civile ai soli cittadini italiani. Ma la Corte interviene dichiarando l’illegittimità di questa esclusione, precisando che il «valore di solidarietà è un fattore di integrazione, non soltanto quando è ricevuta, ma anche quando è prestata».