«La Corte costituzionale ha il dovere di spiegare le sue decisioni». É questa frase, pronunciata ieri dal presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, a segnare l’avvio di una forte innovazione nell’ austero palazzo che una volta ospitava la Consulta del Papa Re, e che proprio dal punto dì vista dell’ accountability sembra purtroppo troppo spesso esser rimasto fermo all’epoca.

Sentenze e giudizi troppo spesso in giuridichese stretto, e comunicati stampa all’altezza, che capita anche ai giuristi dì dover leggere con la lente d’ingrandimento. Nella perfetta indifferenza al mondo, quando invece anche il cittadino comune deve poterne comprendere immediatamente lettera e senso.

E invece, la grande novità dell’altro giorno: nel momento di decisioni che avranno riverberi nel corpo vivo del Paese - ma tutte le decisioni della Corte hanno in realtà questi effetti - la Corte si apre alla pubblica opinione. Spiega il perché e il percome delle decisioni assunte, e accetta dì rispondere alle domande dei giornalisti, che in democrazia null’altro sono se non per l’appunto rappresentanti della pubblica opinione.

Come accade a Londra, a Washington, come accade là dove secoli fa sono nate le corti Costituzionali ( e dove strabuzzano gli occhi se si prova a giustificare il regime dì autodichia, per quanto fondato nella storia italiana, in cui vivono le nostre istituzioni).

Come accade quando un’istituzione è forte, in democrazia: non teme il mare aperto del confronto. Una cosa, tra l’altro, alla quale tutti i nostri giudici costituzionali sono già particolarmente allenati, dovendo prendere decisioni delicatissime, e con forza giuridica che neanche le normali leggi hanno - poiché le disposizioni della Corte sono immediatamente auto-applicative - attraverso il complesso meccanismo della collegialità: i Quindici sono costretti a discutere e ad attraversare contrasti anche forti finché non si arriva a raggiungere il punto dì condivisione.

Per la Corte, è stata una prima assoluta. Un assoluto debutto dell’assunzione dì responsabilità, mettendo la faccia come si dice comunemente, circa le decisioni prese. Un assoluto debutto di accountability, che non è un vezzo angloamericano ma una pratica materiale della democrazia, e che in quei Paesi riguarda tutti: il dover render conto alla comunità in cui si vive va dal benzinaio alla più alta carica istituzionale.

Ed è stata certo una prima assoluta anche formalmente. Mai accaduto prima, da che la Corte è operativa, e cioè dal 1956. Certo, in apertura di conferenza stampa, per mitigare l’exploit, il presidente Amato ha detto di aver voluto «riprendere un’antica tradizione della Corte». Il riferimento, in una frase che dà anche la misura dì quanto una normalissima (altrove) conferenza stampa abbia fatto vibrare gli stipi del vetusto Palazzo, non può che essere a quando, agli albori della Corte, il fascistissimo Gaetano Azzariti (durante il Ventennio era stato presidente del Tribunale della Razza), transitato nell’Italia repubblicana da presidente della Consulta aprì inaspettatamente ai rappresentanti dei media.

Una volta l’anno, in quegli anni tra il 1957 e il 1961, i giornalisti si accomodavano in salotto accanto al presidente coi loro taccuini e i loro microfoni per una conversazione vis- à- vis. Nasce così la tradizione dell’annuale appuntamento dì gennaio- febbraio, che però poi negli anni è diventato altro: prima, e davanti a tutte le più alte cariche della Nazione, il presidente sul podio legge una lunga relazione sul lavoro che la Corte ha svolto nell’ultimo anno. Dopo, sono ammesse le domande dei giornalisti. Che sono poche, in genere, perché non c’è materia calda dì cui trattare, tanto che spesso di quella conferenza stampa sui media non è restata che una foto- notizia.

Invece, non calda ma incandescente era la materia affrontata l’altro giorno: le sorti dell’ondata referendaria a venire. Sorprendente, ma in negativo, è invece come la stragrande maggioranza del sistema mediatico ha reagito all’accadimento.

«Uno show», «la Corte fa politica» in prima pagina al mattino dopo, mentre una delle reti televisive che stava assicurando la diretta - e si è trattato dì una rete Rai - interrompeva il presidente mentre stava parlando per dare la linea a uno dei politici presentatori dì referendum che aveva organizzato in piazza la «sua» controconferenza stampa. Come togliere la parola al presidente della Repubblica per darla a un qualsivoglia capo dì partito politico.

Accogliere con acidità - e, nei corsivi, perfino ferocia - una novità dì democrazia è ciò che segna il destino dell’Italia. Non sarebbe possibile se chi puntando il dito contro lo «show» avesse consapevolezza dì quale è il ruolo - dì che cosa è, dì quali funzioni svolge- una Corte costituzionale in democrazia.

Quanto poi al «fare politica», bisogna intendersi. Ogni decisione, ogni parola della Corte costituzionale ha ricadute politiche, e tale da infiammare il dibattito pubblico. Ma, esattamente come ogni parola del capo dello Stato, non hanno appartenenza le ragioni che muovono parole e decisioni. Essendo la ragione una sola: la Costituzione. La sua salvaguardia, poiché è il patto costituzionale a rendere l’Italia una nazione e a rendere italiani i suoi cittadini, nella sua interpretazione, poiché si tratta di materia viva.

E occorre intendersi anche sul fatto che la più forte innovazione sia venuta da un politico qual è Giuliano Amato. Politico nel senso che ha vissuto e vive la polis, e ai più svariati e alti livelli. La polis, lo spazio pubblico nel quale viviamo e ci formiamo tutti, ognuno di noi per quel che sa e che può, e perfino chi ne è inconsapevole. La polis, perché politica non è sinonimo di partitico. Anzi, qualche volta e comunque nel caso migliore, ne è l’esatto contrario.