Per i detenuti il lavoro fa la differenza, rende tutto più vitale, soprattutto se gestito da soggetti imprenditoriali capaci di proporre lavoro vero. Attualmente, però, è un’opportunità molto ridotta, raggiunge solo il 4% della popola zione carceraria, se non si conteggia il lavoro per periodi troppo brevi, con orari giornalieri troppo limitati e dedicati al funzionamento interno alla struttura.

Lo studio ha approfondito il rapporto "carcere e lavoro"

È quello che emerge in uno studio multicentrico, realizzato con il patrocinio del ministero della Giustizia, e promosso dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Emanuela Zancan. Lo studio ha approfondito il rapporto “carcere e lavoro” con riferimento a quattro aree: organico-funzionale, cognitivo-comportamentale, socio ambientale e relazionale, valoriale e spirituale. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con tre istituti penitenziari: l’istituto “Lorusso e Cutugno” di Torino, l’istituto di Padova e l’istituto di Siracusa. Poter lavorare, nelle parole dei detenuti intervistati, rappresenta un’occasione preziosa e necessaria per riscoprire la propria dignità e la possibilità di un riscatto “oggi e domani” cioè durante la detenzione e dopo, nel reinserimento nella società. A maggior ragione, emerge dallo studio, è quindi importante non solo la possibilità di impiego, ma tutto quello che può facilitarlo con adeguati percorsi di sostegno personale e professionale. Lavorare tiene la mente impegnata e previene la depressione, altro punto emerso. La “depressione” è una condizione frequente nella vita in carcere: i “depressi” e gli “scoraggiati”, secondo il campione di detenuti raccolto, sono il 20% dei lavoratori per cooperative, il 25% circa dei lavoranti per l’amministrazione penitenziaria, schizza al 55% tra chi non lavora.

Il lavoro dei detenuti nelle cooperative esterne genera benefici diretti e indiretti

Altro dato è che chi non lavora, se sente escluso e chiede più rispetto. “A volte penso di essere un buono a nulla”: il 18,6% lo pensa, ma con significative differenze tra il 26,9% di chi non lavora, il 20,4% dei lavoranti per l’Amministrazione e il 9,5% dei lavoratori di cooperative. Il lavoro dei detenuti alle dipendenze di cooperative esterne è la forma di impiego che maggiormente si avvicina ad attività lavorative “normali”. La produzione di beni e servizi nell’ambito delle cooperative genera, oltre ai benefici diretti (economici e personali) per i detenuti, anche ricavi e conseguenti versamenti di imposte a vantaggio delle finanze pubbliche. Questo comporta possibilità di occupazione per altre persone nelle cooperative stesse che insieme beneficiano dell’attività svolta dai detenuti.

Altro aspetto rilevante riguarda la possibilità di reinserimento sociale dei detenuti dopo il rilascio

Le attività svolte dai detenuti con le cooperative sono variegate: assemblaggio, legatoria, digitalizzazione, call center, pulizie e raccolta rifiuti, pasticceria, biscotteria, torrefazione, ristorazione (bar, pizzeria, mensa, ...), sartoria, serigrafia, lavaggio, stireria. E infatti, come sottolinea lo studio, un altro aspetto rilevante riguarda la possibilità di reinserimento sociale dopo il rilascio, grazie alle competenze lavorative sviluppate/rafforzate durante la detenzione. Per quanto riguarda i risultati economici delle cooperative coinvolte nei tre istituti penitenziari, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa, con un costo del lavoro medio pari a quasi 300 mila euro annui. Parte della ricchezza prodotta si traduce (al netto degli sgravi fiscali e contributivi) in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno per cooperativa in media). Le attività produttive delle cooperative contano su un “indotto” ramificato di cooperative/aziende, clienti e fornitori (in media si possono stimare oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa). Complessivamente, le produzioni che impiegano detenuti generano quindi benefici netti a vantaggio dei detenuti stessi, delle organizzazioni coinvolte e della comunità. Ed ecco il punto. Bisogna incentivare il lavoro delle cooperative.

Nel 2019 impiegati 210 detenuti dei tre istituti presi in esame dalla ricerca

La ricerca fa un esempio ipotetico. Considerando ad esempio i dati disponibili per l’anno 2019, le cooperative coinvolte nei tre istituti, impiegando 210 detenuti, hanno prodotto un fatturato complessivo di circa 7,5 milioni di euro e hanno impiegato 106 altre persone (non detenute); applicando ipoteticamente un’aliquota del 10% al valore del fatturato, ne deriverebbe un gettito Iva di 750 mila euro a beneficio delle finanze pubbliche. Mantenendo queste stesse proporzioni, se idealmente il 20% dei detenuti nelle carceri italiane fosse coinvolto in attività lavorative alle dipendenze di cooperative (quindi molto più dell’attuale 4% di detenuti coinvolti in tutte le tipologie di lavoro extra amministrazione penitenziaria, non solo in cooperative), ciò genererebbe oltre ai benefici diretti per gli oltre 12 mila detenuti impiegati (un quinto dei quasi 61 mila detenuti totali a fine 2019) e per le loro famiglie – un fatturato complessivo di 430 milioni di euro, con un corrispondente gettito Iva di 43 milioni di euro, e opportunità occupazionali dirette (nelle cooperative stesse) per altre 6 mila persone non detenute e indirette per ulteriori occupati in aziende collegate dell’indotto (punti vendita, clienti, fornitori, ...) in tutta Italia. Mantenendo le medesime proporzioni, e ipotizzando invece che il 50% dei detenuti in Italia fossero impiegati presso cooperative (o altri soggetti esterni) in luogo del 4% attuale, cosa cambierebbe? Si determinerebbe un maggior fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. A regime, si potrebbe inoltre realizzare un risparmio di 700 milioni di euro all’anno nella spesa pubblica per il carcere, grazie alla riduzione attesa della recidiva.