La relazione del presidente dell'Ordine degli avvocati di Cagliari, Matteo Pinna, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2022 Signora Presidente, Signora Avvocato Generale, Signora Rappresentante del Consiglio Superiore della Magistratura, Signor Rappresentante del Ministro, Autorità intervenute, L’inaugurazione dell’anno giudiziario è, tradizionalmente, un momento di bilanci. La tempesta che ancora attraversiamo ci impone, per non perdere la rotta, di guardare anche avanti, con la massima lucidità possibile: siamo tutti consapevoli che l’emergenza - fattore di crisi e insieme di opportunità - ha generato un contesto nel quale è in gioco la giustizia del futuro, e con essa una parte importante della crescita civile ed economica del nostro paese. L’efficacia delle risposte che sapremo dare - a tutti i livelli: politici e istituzionali, normativi, giudiziari e amministrativi, centrali e territoriali - sarà direttamente proporzionale all’onestà e alla profondità delle domande. Sul fronte dell’attività giudiziaria, anche nel nostro distretto l’emergenza ha significato innanzitutto adattamento e riprogrammazione del nostro lavoro e delle nostre funzioni, in un bilanciamento non sempre facile tra salute individuale, salute collettiva, sicurezza e diritti di difesa. A complicare l’impegno, norme non sempre tempestive, chiare e coordinate tra loro, e probabilmente un’eccessiva responsabilizzazione degli organi territoriali, sulle cui spalle sono stati caricati compiti che avrebbero richiesto maggiore centralizzazione. Molti errori sono stati commessi: alcuni erano forse inevitabili in una situazione così complicata, altri si potevano evitare. Ciò che certamente si doveva e si deve evitare - e che ha segnato, in questa come in altre sedi, uno dei punti di tensione in un quadro tutto sommato soddisfacente di collaborazione e di solidarietà tra ordini forensi e uffici giudiziari - è un approccio irragionevolmente rigido alle misure di cautela, come nel caso dell’accesso su prenotazione alle cancellerie, che da sistema di regolamentazione ordinata e razionale, su base volontaria, non deve diventare ingiustificata limitazione dei diritti. Come pure, più in generale, le difficoltà connesse alla pandemia e le esigenze di tutela della salute non devono diventare, solo per la giustizia e per i suoi servizi, motivo di uno stato di emergenza permanente o comunque protratto oltre le reali necessità. È stato (con molte difficoltà, ma anche con significativi progressi, soprattutto sul fronte, più arretrato, del penale) un altro anno di accelerazione digitale e telematica. Un anno che ci ha aiutato a comprendere meglio ciò che occorre conservare e migliorare (la smaterializzazione e la remotizzazione degli atti, delle istanze, dei depositi) e ciò che occorre evitare (il sacrificio permanente, sull’onda delle contingenze, dei principi di oralità e immediatezza; la svalutazione o la marginalizzazione dell’udienza fisica come momento insostituibile del contraddittorio e garanzia primaria di giustizia della decisione; l’eccessiva cartolarizzazione dei giudizi di impugnazione, in particolare dell’appello). È ancora lontana, ma resta un obiettivo primario, l’omogeneizzazione delle piattaforme digitali. I numeri tendenzialmente migliorano, come vediamo: non devono arretrare le garanzie e la qualità della giurisdizione. L’emergenza è anche tempo di risorse forse irripetibili e di grandi opportunità di riforma, delle quali bisognerà rendere conto in termini rapidi e stringenti. Queste opportunità si innestano, per le ragioni che ben conosciamo e che vanno oltre la cronaca recente - anche se nella cronaca recente trovano una rappresentazione particolarmente significativa - in una profonda crisi della giurisdizione: crisi di legittimazione, crisi di funzionalità, crisi di immagine. Queste risorse straordinarie sono connesse, per natura e funzione, a parametri di efficienza procedurale e gestionale. Impongono tempi, numeri e risultati. Indicano traguardi, ma il percorso per arrivarci compete a noi, così come ci compete la costruzione - doverosa, non facoltativa - di un equilibrio tra efficienza e garanzie. E non c’è riforma che rispetti questo dovere se non quella che nasce - prima che dai numeri, dai coefficienti e dalle proiezioni - dalla consapevolezza delle questioni di fondo, a partire da quelle connesse alle disfunzioni dell’ordinamento giudiziario sulle quali, purtroppo, maggiore e più preoccupante è il ritardo, un ritardo che non possiamo più permetterci. L’avvocatura è pronta da tempo ad assumersi le sue responsabilità e a partecipare a questo percorso, a partire dai consigli giudiziari la cui organizzazione e le cui funzioni attuali sono in parte figlie di quel modello disfunzionale e insieme a quel modello devono essere ripensate. I tempi e l’arretrato. Una giustizia che non risponde alle domande in tempi ragionevoli e soccombe sotto il peso dell’arretrato non è giustizia; ma nella nostra Costituzione il processo la cui durata ragionevole deve essere assicurata dalla legge non è qualunque processo, è il giusto processo. Efficienza, riorganizzazione e velocizzazione dell’attività giudiziaria sono quindi fondamentali, ma non lo è meno il modello di giurisdizione che si ha in mente. L’idea certamente virtuosa, su cui molto si sta puntando, dell’alleggerimento delle funzioni decisionali tramite gli uffici di staff in parte già sperimentati, non deve fare dimenticare che il fulcro della giurisdizione resta il giudice professionale, togato, selezionato con rigore e valutato con altrettanto rigore nella sua professionalità. Sarebbe sbagliato, anche nella stagione che si apre, pensare che a certi numeri del contenzioso si debba rispondere con l’aumento o con un inopportuno sovraccarico delle professionalità ausiliarie (ufficio del processo ma anche magistratura onoraria), senza aumentare, con risorse adeguate, il numero dei giudici togati: non è un caso se l’Italia, al netto delle gravi scoperture di organico, è ancora ventiduesima tra i ventisette paesi dell’Unione per numero di magistrati in proporzione alla popolazione. Anche l’avvocatura, specularmente, deve riflettere e riflette sui suoi numeri, e con essi sulle ragioni della sua crisi, coltivando senza ambiguità autoassolutorie il rigore nell’accesso, nelle specializzazioni, nella formazione professionale e deontologica come unici strumenti di protezione del suo ruolo costituzionale e della sua funzione sociale. In questa prospettiva, la responsabilità maggiore è quella di accompagnare i giovani in un mondo profondamente diverso da quello nel quale siamo cresciuti, la cui complessità impone innanzitutto di coltivare l’idea della selezione come percorso professionalizzante, non come estemporanea esibizione nozionistica. Usciti dall’emergenza e dalle giuste misure protettive e compensative, occorrerà rimettere questo tema tra le priorità. Se si condivide questo quadro di insieme, si condividono le non poche ragioni di soddisfazione, ma anche le altrettanto serie ragioni di perplessità per i progetti di riforma, a cui in molti punti - e non solo per le contingenze della politica - sembra mancare un coraggio adeguato al momento e alla gravità dei problemi. La delega sul processo penale segna, finalmente, l’abbandono del populismo punitivo come principale matrice della politica giudiziaria, ma di fatto paga a quella stagione un pesante tributo, di cui sono segni evidenti il compromesso già vigente su prescrizione e improcedibilità, l’accantonamento delle proposte più coraggiose in materia di alternative sanzionatorie, di giustizia riparativa e di ampliamento dei riti negoziali e degli strumenti deflativi, la rinuncia ad affrontare i temi cruciali del controllo giurisdizionale sull’ipertrofia investigativa e cautelare, una certa ambiguità in materia di selezione delle impugnazioni. Siamo ancora lontani dal risolvere le distorsioni del processo mediatico, e la cronaca recente dimostra, purtroppo, quanto poco risolutiva sia anche la tardiva attuazione della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Nel civile, come nella settore della crisi di impresa, va salutato positivamente l’ulteriore e deciso ampliamento degli spazi di risoluzione alternativa e di composizione negoziata, con strumenti che rendano tali percorsi - dove il ruolo dell’avvocato è cruciale - efficaci, percorribili e convenienti. Negli interventi sul rito occorre evitare che una auspicabile velocizzazione e razionalizzazione della fase introduttiva del giudizio, con responsabilità ed impegno equamente distribuiti tra parti e giudice, si traduca in un aumento eccessivo e sproporzionato delle preclusioni e delle decadenze. Ciò che deve ancora inquietarci è la drammatica situazione del carcere, della giurisdizione di sorveglianza e dell’esecuzione penale esterna. Mentre riforme scritte con le migliori energie e la migliore cultura giuridica e professionale sono rimaste nel cassetto per imperdonabili mancanze di coraggio politico, mentre il Parlamento ancora non ha dato corso ai moniti della Corte costituzionale, il sistema penitenziario resta la ferita più grande alla nostra civiltà giuridica. Siamo tutti chiamati, ognuno nel suo ruolo, a una stagione di grandi responsabilità: abbiamo le competenze, le energie, e speriamo anche, finalmente, le risorse perché l’ottimismo non sia solo retorico e perché questo periodo di difficoltà e di sacrifici non sia stato vano. Anche in questi uffici giudiziari - per ciò che dipende, più che dalle norme, dalla cultura e dalle buone prassi - mi pare vada aumentando da tempo la consapevolezza che i nostri problemi sono in larga parte comuni e vanno affrontati insieme, senza riflessi corporativi, con trasparenza, capacità di ascolto e onestà intellettuale. È con questo spirito che, per l’anno giudiziario che oggi si inaugura, faccio a tutti noi i migliori auguri di buon lavoro.