Quei 16 voti per il Quirinale arrivati a Sergio Mattarella nel primo scrutinio, diventati 39 al secondo e addirittura 125 al terzo, senza essere stato candidato da nessun partito, contro i 114 di Guido Crosetto sventolato come una bandiera dimostrativa dalla destra di Giorgia Meloni, costituiscono un segnale indicativo di qualcosa non confondibile di certo con i giochetti liquidabili con la formula dei “voti dispersi”. L’ipotesi di una conferma del presidente uscente della Repubblica continua quindi ad aleggiare come un fantasma o un sogno, secondo le preferenze, per quanti sforzi abbia fatto e continui a fare l’interessato per sottrarvisi. Come anche l’ipotesi di un’elezione di Mario Draghi, che diversamente da Mattarella però non la scambia per una disgrazia, avendo già avuto modo di apparire pronto a viverla come «un nonno a disposizione delle istituzioni»: immagine che tanti guai e polemiche gli ha procurato, sino a fargli rischiare una specie di squalifica o una condizione di sostanziale ineleggibilità, presuntivamente implicita nella storia dei 70 anni e più della Repubblica. In cui - si è scritto contro Draghi - a nessun presidente del Consiglio sarebbe mai venuta in mente la malsana idea di candidarsi o lasciarsi candidare al Quirinale. Ciò tuttavia non è vero perché almeno nel 1992 da presidente del Consiglio in carica la buonanima di Giulio Andreotti si lasciò tanto tentare da quella prospettiva che fra i suoi amici parlamentari si adoperarono in parecchi, o comunque nel numero sufficiente all’impresa. per il naufragio della candidatura al Quirinale del segretario del suo partito, la Dc. Che era l’ancor vivo e quindi prezioso testimone Arnaldo Forlani, così poco interessato peraltro al successo da ritirarsi dalla gara dopo il secondo scrutinio su di lui, che pure gli aveva fatto recuperare una parte dei voti mancatigli la volta precedente. Ma bando alle chiacchiere e alle rievocazioni del passato. Il problema di fronte al quale, volente o nolente, si trova in queste ore Mattarella - fortunatamente tornato al Quirinale dal suo rapido ritorno nella casa di Palermo per scegliere mobili e quant’altro da fare spedire all’appartamento romano che ha preso in affitto in vista della scadenza del suo mandato presidenziale - è l’indebolimento oggettivo del governo Draghi. Che lo stesso Mattarella volle incisivamente l’anno scorso per ragioni di emergenza chiudendo la crisi fallimentare del secondo e ultimo governo di Giuseppe Conte, riuscito in poco più di due anni a bruciare entrambe le alternative ordinarie, chiamiamole così, delineatesi all’inizio della legislatura, nel 2018. L’indebolimento del governo Draghi deriva proprio dall’uso politico e persino personale che si sta facendo della corsa al Quirinale, da destra e da sinistra, contro il presidente del Consiglio. Che non mi pare - francamente - fosse stato scelto e nominato da Mattarella solo nella prospettiva della fine del proprio mandato, ma anche o soprattutto nell’interesse dell’Italia in emergenza.