Per usare le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, l’esecuzione penale esterna è un settore sempre più strategico. Un settore che, però, come denunciato da Il Dubbio a settembre scorso, rischia di collassare se non viene incrementato l’organico dell’Ufficio esecuzione penale esterna ( Uepe). Per questo, a fine dicembre scorso, è stato sottoscritto un ordine del giorno con il quale il Parlamento impegna il governo a intervenire con urgenza.

«Sto già verificando con il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, quale possa essere la prima occasione – ha affermato la Guardasigilli – per tener fede a quest’importante impegno». Ricordiamo che per seguire i detenuti in misura alternativa, si prevede che l’organico sia dotato di 3.478 unità, ma in questo momento sono in servizio 1.527 persone. Una evidente sproporzione denunciata da circa 250 funzionari del servizio sociale che si occupano della presa a carico degli imputati raggiunti da misure alternative alla detenzione.

Il Dubbio aveva potuto verificare che con una valanga di lettere i sindacati e l’ordine professionale sono stati sommersi per chiedere aiuto. Gli operatori sono preoccupati, credono fermamente alla missione del loro lavoro, ma si sentono abbandonati a sé stessi.

Le misure alternative alla detenzione sono fondamentali per la deflazione della popolazione detenuta e la riduzione della recidiva. Per renderle efficaci, di grandissima importanza è il contributo dell’Uepe che instaura un rapporto “collaborativo” con l’imputato inteso a verificare sia l’esatta esecuzione dell’affidamento in prova che il corretto reinserimento nel tessuto sociale. A renderlo operativo sono gli assistenti sociali che prendono in carico la persona, seguendolo passo dopo passo. Questo sulla carta, ma nei fatti non è più possibile a causa dell’insufficienza del personale. Il rapporto tra funzionari dell’Uepe e gli imputati o condannati, è uno a 180. Dal punto di vista pratico è già insostenibile seguire tutti e la giusta riforma Cartabia che amplierà la platea degli aventi diritto della messa alla prova, se non accompagnata da un sostanzioso incremento delle risorse umane, rischia di rendere vana la buona intenzione. A lungo, se non a breve termine, rischia di diventare un boomerang e dare linfa vitale a chi vorrebbe rinchiudere a prescindere le persone e buttare via la chiave.

Come ha scritto recentemente sul Sole 24 ore il giurista Gian Luigi Gatta, consigliere della ministra della Giustizia, sono risorse di cui ha necessità la giustizia, come servizio pubblico, anche per raggiungere gli obiettivi posti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza ( Pnrr) (tra i quali la riduzione del 25% dei tempi medi dei procedimenti penali): le misure di comunità consentono una forte deflazione processuale, rappresentando incentivi a forme di definizione alternativa e anticipata del procedimento.

Sono al centro della riforma della giustizia penale: uno dei tasselli del Pnrr che il governo è stato delegato dal Parlamento ad attuare nei prossimi mesi. Un apposito gruppo di lavoro costituito dalla ministra Cartabia e coordinato dal professor Gatta stesso, è da alcune settimane al lavoro per supportare l'attuazione della riforma, che prevede l'estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova e una riforma organica delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, che amplia il novero delle misure di comunità, affidando ulteriori compiti agli Uepe. Un motivo in più, affinché il governo tenga fede nell’impegno di incrementare l’organico degli uffici dell'esecuzione penale esterna.