La recente inchiesta condotta da Valentina Angela Stella sulle pagine de Il Dubbio a proposito delle violazioni del principio del contraddittorio nella formazione della prova - che ha riguardato non solo processi celebri (uno su tutti quello sulla morte del Carabiniere Cerciello Rega) ma quel che accade nella quotidianità delle nostre aule di Tribunale - ha avuto il pregio non solo di svelare e censurare la prassi diffusa di costante erosione delle regole che presidiano la formazione della prova, ma di rilanciare un dibattito che da tempo ormai sembrava un po' lasciato ai margini e che, invece, attinge il cuore del “giusto processo” penale. Se volessimo partire dall’inizio potremmo iniziare così: c’era una volta il contraddittorio orale per la formazione della prova che, con termine mutuato dal diritto anglosassone, a cui il nostro sistema è timidamente ispirato, prende il nome di cross examination. Per prudenza, occorre usare l’imperfetto: perché quella del processo accusatorio (il modello introdotto nel 1988 anche in Italia) è una storia accidentata. Sin dai suoi albori non ha avuto vita facile. Se mai ci sia stato o se sia (solo) entrato in una profonda crisi, è questione che affanna i processualisti sin dal lontano 1992. Ma di certo si fa una certa fatica ad usare l’indicativo presente, modo della certezza, se solo si ha la pazienza di attraversare, con occhio critico quel che accade nei nostri Tribunali oggi. Ma andiamo con ordine. Quando nel 1988 venne varata la più radicale riforma del rito penale dell’Italia repubblicana, con l’introduzione di un metodo nuovo per la formazione della prova (esame diretto e controesame condotto dalle parti, accusa pubblica e privata, da un lato, difesa dall’altro, salve rare ed eccezionali incursioni del giudice), l’obiettivo non fu quello di dar luce ad un esperimento di miglioria tecnica, ma quello - decisamente più ambizioso - di scrostare il processo penale da tutti i residui di un’epoca ormai definitivamente tramontata nella quale il rapporto tra Stato e cittadino era tutto sbilanciato a favore del primo, plasticamente rappresentato dalla figura del giudice istruttore, una sorta di pantocratore depositario di una verità preconfezionata prima e altrove, fuori dall’aula. Questa, l’aula, ridotta ad uno sfilare di deposizioni sempre uguali: «conferma quanto dichiarato? Sì, confermo». Era il processo dei retori, il trionfo dell’ars oratoria, ma anche della disparità delle parti, del solipsismo del giudicante. Insomma, l’Italia uscita dal ventennio fascista aveva conservato, nonostante i numerosi tentativi (naufragati) di riforma, per ben quarant’anni, un rito che a quel periodo storico era indissolubilmente legato, mani e piedi. E che l’avvento della Costituzione e le trasformazioni sociali degli anni immediatamente successivi avevano reso anacronistico. Diventava non più differibile la trasformazione del processo penale quale simbolo di una rinnovata stagione che alla pienezza dei diritti sociali doveva far corrispondere un’altrettanto adeguata pienezza dei diritti del singolo di fronte al potere dell’Autorità anche nel processo penale. La scelta del contraddittorio orale per la formazione della prova siglava questo passaggio epocale: conferiva pari dignità ai contendenti nella condivisione del percorso migliore per tendere all’accertamento della verità. Senza indulgere in troppo facili trionfalismi, quel modello usciva dall’aula parlamentare come una vittoria della democrazia, pur con i limiti tipici di scelte figlie di compromessi diplomatici di non facile composizione. Non possiamo dimenticare che il potere dei pubblici ministeri nella fase delle indagini preliminari restava e resta estremamente dilatato, anche se la separazione delle fasi scongiura l’utilizzo immediato dei risultati investigativi nel processo. Né tacere che l’oralità nella formazione della prova (la cui sede naturale è il dibattimento), già nelle intenzioni del legislatore, intanto poteva sopravvivere alla sola condizione che riguardasse solo alcuni casi, pena il collasso del sistema. Le sirene degli sconti di pena, in caso di patteggiamento o abbreviato, lo hanno reso territorio per pochi, selezionatissimi, eletti. Eppure, anche se claudicanti, le basi del nuovo sistema trasudavano rivoluzione. Ma durò poco. Pochissimo. Era, insomma, la cronaca di un fallimento annunciato, un tracotante passaggio oltre le colonne d’Ercole. Eccoci al 1992. Non una data casuale: erano gli anni delle stragi di mafia, degli attentati ai magistrati del pool antimafia Falcone e Borsellino, di Tangentopoli. Immaginare che il lavoro degli investigatori potesse essere “disperso” mediante la riedizione in aula di deposizioni testimoniali senza aver possibilità di recuperare il lavoro svolto, sembrò un’eresia inaccettabile. Fu la Corte costituzionale a segnare il primo autorevole “stop” alla riforma, consegnata (errore strategico dei conditores) nelle mani di una magistratura impreparata culturalmente e nostalgicamente affezionata al rito inquisitorio, a disagio entro gli angusti spazi di quello che veniva interpretato come un ruolo meramente notarile e ben distante dall’altissima funzione di cercare e svelare la verità. Insomma, per la Corte costituzionale l’attività investigativa del pubblico ministero non doveva essere dispersa e dunque venne aperta la breccia all’ingresso, nel processo, delle dichiarazioni raccolte unilateralmente dal pubblico accusatore fuori dall’aula. La reazione del legislatore a questa tendenza revisionista della Consulta si tradusse nella Legge costituzionale del 1999 e nella modifica dell’art. 111 Cost. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova acquistò una copertura autorevole, elevato nell’iperuranio dei diritti naturali, una specie di dogma inscalfibile, impermeabile alle derive involutive di certe posizioni giurisprudenziali. E d’altra parte nessuna sentenza della Corte costituzionale negli anni successivi ha potuto confermare i suoi precedenti del ’92. Il diritto al contraddittorio inteso come right to confrontation è una prerogativa dell’imputato che partecipa - in condizioni di parità con l’accusa- all’accertamento della verità. Questo il senso della lapidaria affermazione contenuta nell’art. 111, comma 3, Cost “la legge assicura che la persona accusata di un reato abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico”. Ma nei primi decenni del nuovo secolo nascono quelle che alcuni autorevoli studiosi hanno chiamato, con felice definizione, le “erosioni silenziose del contraddittorio”: non più principi sbandierati ma prassi nascoste, silenziose, appunto, capaci di limare, fino all’osso, la portata innovativa del principio del contraddittorio. Obiettivi di efficienza e idiosincrasia per le garanzie processuali, considerate troppo spesso d’ostacolo al conseguimento di una celerità che non è certo ad uso e consumo dell’imputato, divengono i grimaldelli ideologici di una nuova stagione che attinge a paradigmi passati - incursioni inquisitorie- per fare presto, anche se non bene. Anzi malissimo. Una tendenza che, quand’anche ispirata dal “buon senso”, è figlia di una cultura che consente di legittimare, persino se in buona fede, sconfinamenti non autorizzati dal codice di procedura penale, in nome, ancora una volta, di una visione autocratica degli accadimenti processuali, di un principio, la ragionevole durata del processo, che diviene “l’arma laser per osteggiare il contraddittorio e le sue sopravvissute vestigia: troppi diritti per le parti, rectius per l’imputato, appesantiscono l’iter giudiziale, la cui celerità è ragionevole se soddisfa esigenze di difesa sociale” (L. Zilletti, il potere dei più buoni e altre sconvenienze, Misesis, 2020). Non sorprende, ahimè, che un giudice interrompa il difensore mentre sta stressando la prova, come si dice in gergo, cercando di verificare l’attendibilità del dichiarante e, dunque, in altre parole, di fare il proprio mestiere, di eseguire persino un precetto deontologico. Né sorprendono gli inviti, rivolti ai difensori, a dare il consenso all’utilizzazione delle dichiarazioni acquisite unilateralmente dal pm, il famoso “abbreviato mascherato”, per evitare inutili ripetizioni in aula. Talvolta in cambio del riconoscimento di attenuanti generiche che l’imputato si è meritato per “la buona condotta processuale del difensore”. Per carità anche i difensori troppo spesso aderiscono ad inviti che fanno strame di principi costituzionali, accettando di buon grado sollecitazioni alla velocità, limitazioni al diritto alla prova. Se questo è il terreno culturale in cui oramai trovano radice e sostegno pulsioni revisioniste, ogni declinazione del principio dell’oralità - persino il diritto a farsi giudicare da quel magistrato che ha seguito la formazione della prova e non da chi lo sostituisce nel corso del processo- si trasforma in abuso insopportabile, nemico dell’efficienza. Questo il senso delle recenti prese di posizione della Corte costituzionale e della Cassazione a Sezioni unite (il famoso affaire Bajrami) intervenute a comprimere severamente il sacrosanto diritto di farsi giudicare dal giudice che ha governato la prova e non da quello che lo sostituirà in nome di un preteso equilibrio, un “bilanciamento” tra principi di natura diversa e configgenti. Ma quali? Il diritto all’oralità e l’aspirazione di carriera del magistrato: nel caso deciso dalla Corte costituzionale, per dieci volte erano cambiati i magistrati nel corso del processo per trasferimenti di sede. E allora perché non usare le prove già espletate davanti al collega anziché perder tempo con nuove deposizioni orali? Per una ragione semplice: perché nessuna scorciatoia assicura la giustizia del risultato, la correttezza del decidere: solo il giudice che ha visto il testimone, che lo ha sentito, che non si limita a leggere la trascrizione delle sue dichiarazioni ma che ricorda il tono di voce, la gestualità dei segni del corpo, gli occhi, le mani, il sudore della risposta ad una domanda scomoda, che saggia reticenza e attendibilità, in una parola solo chi partecipa alla formazione orale della prova, può garantire una sentenza giusta. Lo impone la Costituzione, piaccia o no. Desta sconcerto, allora, il recentissimo j’accuse di ANM nell’invettiva contro il Dubbio: magistratura e avvocatura, insieme, dovrebbero avere interesse a sorvegliare lo stato di salute del processo, evitando il ripetersi di quotidiani, non isolati, tradimenti di un principio costituzionale. Una difesa strenua della corporazione che dimentica, lo ha ben detto Valerio Spigarelli nell’intervista del 23 dicembre scorso, il vademecum Lapec sull’esame e controesame frutto, quello sì, di un impegno culturale corale tra magistratura, avvocatura e accademia, impegnate insieme nel tentativo di assegnare pienezza e senso ad un principio che ancora resta scritto, indelebilmente, nella Carta Fondamentale. Fin tropo evidente, allora, che ad essere in crisi, oltre al contraddittorio è, prima ancora, la soggezione del giudice alla legge “trionfante e moribonda” (Paolo Ferrua): l’insofferenza verso la fonte positiva del diritto in cambio di un’interpretazione ispirata all’efficienza che soverchia, scompone, trasfigura la separazione stessa dei poteri e svuota di senso il fondamentale principio del primato democratico della legislazione, espressione del consenso popolare. Niente a che vedere con il potere giudiziario “invisibile e nullo” di Montesquieu: non abbiamo questa ambizione, non vogliamo un giudice “sfinge” come è stato detto dal dott. Bouchard nell’intervista rilasciata a il Dubbio lo scorso 22 dicembre. Ma un processo che abbia a vedere con la Costituzione.