«Non scappo dal processo, ma voi avete violato la Costituzione». Matteo Renzi usa Facebook per rivolgersi i pm del caso Open, gli stessi che ieri ha incontrato dopo aver incassato il sì della Giunta per le immunità sulla proposta di chiedere al Senato di sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale. L’ex presidente del Consiglio si è recato in procura a Firenze, consegnando a Luca Turco e Antonino Nastasi cinque pagine, con le quali i suoi legali - Gian Domenico Caiazza e Federico Bagattini - hanno chiesto di archiviare il procedimento, evidenziando i «grossolani» errori dell’accusa, a partire dalla violazione delle garanzie sancite dall’articolo 68 della Costituzione. E ribadendo il concetto già espresso alla Leopolda: quello in atto, sottolinea, è un «processo politico alla politica». Uno «scandalo» che è pronto ad affrontare «a viso aperto», tanto da annunciare tra le righe di voler rinunciare all’immunità prevista dall’articolo 68. Lo stesso che però richiama laddove evidenzia «l’indebita» acquisizione della sua corrispondenza - incluso l’estratto conto bancario -, con lo scopo di smascherare «le plurime violazioni costituzionali dei pm» e verificare se le stesse «meritino una sanzione». Una battaglia condotta in nome della «dignità della politica e per il rispetto della separazione dei poteri contro l’invasione di campo di una parte della magistratura», perché «credo nella giustizia, quindi chiedo giustizia». Renzi parla di numeri e soldi, mostrando la sproporzione tra le azioni della procura e quelle della difesa: i pm, sottolinea, hanno condensato le accuse in 94mila pagine «ridondanti e piene di errori», spendendo «centinaia di migliaia di euro pubblici per dimostrare che i nostri finanziamenti privati non sono formalmente corretti», un immenso faldone al quale la difesa ha risposto «con cinque pagine a nostre spese». Secondo i pm, Renzi avrebbe utilizzato la fondazione Open per finanziare il suo partito, raccogliendo soldi da privati per eventi legati alla propria attività. La tesi, dunque, è che Open agisse come articolazione di partito, e che quindi dovesse rispettare obblighi più stringenti nella raccolta e gestione delle donazioni. Caiazza e Bagattini, però, individuano cinque errori che inficerebbero ab origine l’accusa, a partire dall’identificazione di Renzi come “direttore di fatto” della Fondazione Open. «Dagli atti di investigazione non emerge alcun comportamento gestorio, di amministrazione, di direzione tecnica, di controllo posto in essere dal senatore Matteo Renzi - si legge nella memoria depositata ieri -, il quale non ha mai neppure partecipato ad un Consiglio direttivo della Fondazione Open». Affermarlo, dunque, sarebbe un modo per inserire l’ex segretario dem nel perimetro di indagine. Ma è l’intero organigramma del Pd richiamato dai pm a risultare “sballato”: la procura ha infatti indicato Renzi come segretario nazionale anche dal mese di febbraio a quello di maggio del 2017, periodo in cui non lo era, attribuendo a Maria Elena Boschi e Luca Lotti il ruolo di componente della segreteria nazionale anche in periodi in cui non ne faceva parte. Boschi è stata inoltre indicata come coordinatrice nazionale della segreteria nazionale, «ruolo che non ha mai ricoperto». Errori non da poco, contestano le difese, in quanto si tratta di «qualificazioni necessarie per ritenersi astrattamente integrato il delitto» di finanziamento illecito. Che si sarebbe concretizzato anche con il sostegno della Fondazione Open al referendum costituzionale del 2016, un escamotage per finanziare, di fatto, in maniera illecita Renzi. Ma Caiazza e Bagattini contestano duramente l’assunto, sostenendo che il referendum, che ha avuto una portata ampia e trasversale, non sarebbe «in alcun modo inscrivibile nelle logiche o iniziative “di partito” né tantomeno “di corrente” ed ancor meno “del singolo politico”». A sostenere i comitati per il sì i soggetti «più eterogenei quanto a natura giuridica, estrazione culturale, inquadramento o riferimento politico», così come i comitati per il no, tra i quali anche pezzi del Pd. All’interno del quale, secondo i pm, ci sarebbe stata una «corrente renziana», affermazione che per l’ex premier rappresenta una «grossolana ed arbitraria mistificazione della realtà», una «sorprendente artefazione» che costituisce «la pre-condizione logica e giuridica della pretesa rilevanza penale dei fatti contestati», si legge nella memoria. Più volte, infatti, Renzi ha affermato pubblicamente che «prima di strutturare una corrente del Pd, lascio il Pd e faccio un partito diverso», cosa poi avvenuta con la nascita di Italia Viva. Ma tutto ciò non è finito nel fascicolo d’indagine, motivo per cui la difesa chiede di approfondire «quali siano i criteri e le circostanze di fatto in base a cui hanno ritenuto esistente una “corrente renziana”», con l’onere di ricostruirne storicamente la costituzione. L’ultimo punto riguarda il mancato rispetto dell’articolo 68 della Costituzione, in merito all’acquisizione di mail, messaggi e conto corrente senza la preventiva richiesta di autorizzazione al Senato, che invece ora dovrà decidere se accogliere la richiesta di sollevare il conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta. «Il mancato rispetto della Legge Fondamentale appare tanto più grave in ragione del carattere reiterato e sistematico della violazione frutto del metodo di lavoro scelto dalle ss.ll. - continua la memoria -. Negli atti oggetto dell’indagine, infatti, sono copiosi i riferimenti alla corrispondenza dell’indagato Renzi nella sua veste di parlamentare dopo il marzo 2018 ma anche prima di questa data quando egli scrive a parlamentari in carica o riceve da loro email o comunque corrispondenza telematica». Da qui la richiesta di archiviazione e, in subordine, di correzione di tutti gli errori elencati in memoria, espellendo dal fascicolo ogni prova acquisita «indebitamente» e verificando quali spese siano state fatte in favore di Renzi, i contributi indiretti ricevuti, nonché le attività di gestione della Fondazione. L’ultima richiesta, invece, è quella di escludere qualsiasi riferimento alle iniziative della Leopolda, richiesta per la quale la difesa si richiama alle pronunce già espresse dalla Cassazione: per i giudici, infatti, è un «dato storico, ampiamente documentato» il fatto che gli eventi della Leopolda fossero «incontri a carattere eminentemente politico, con programmazione di numerosi laboratori, eventi di discussione, occasioni di partecipazione della società civile, diretti a stimolare il confronto su temi oggetto delle attività espressamente previste dallo Statuto della fondazione, senza peraltro alcun collegamento con le attività del Partito Democratico».