Primo, non dimenticare la “Sicilia come metafora”, immagine coniata da Leonardo Sciascia per l’ isola tanto amata e però messa lucidamente a nudo nelle sue miserie e ambiguità, gli inganni ed autoinganni che ne tracciano la storia. Di questa lezione fa tesoro a modo suo Salvo Guglielmino che nel recente “Microcosmo Sicilia” (Rubbettino editore, 2021) fonde in un amalgama originale memorie personali e familiari, cose viste ed esperienze vissute, episodi e personaggi salienti: ne emerge un persuasivo profilo del mondo siciliano fatto di accesi e irrisolti contrasti, in bilico tra modernità e tradizione, impegno per il progresso ed attrazione fatale per il gattopardesco abbandono alla “forza del destino”. Un racconto velato di malinconica ironia è pregio di questo libretto concepito come mosaico di brevi capitoli a sbalzo, tasselli autosufficienti, che rivelano il “microcosmo” siciliano a tutto tondo per una illuminante messa a fuoco progressiva: con le fisionomie di protagonisti dimenticati, come l’antropologo Antonino Uccello, fondatore del prezioso museo della cultura e civiltà contadina, a Palazzolo Acreide; con la vicenda letteraria del solitario e misconosciuto scrittore Giuseppe Rovella, tradizionalista cultore di una “sicilianità indoeuropea”; con il profilo del comunista Renato Guttuso, “emigrato a Roma”, uomo famoso, artista e di potere, e pur sempre dominato da una siciliana indole malinconica; con lo stile, siracusano e romano, di Francesco Trombadori, pittore dai colori gentili della pietra bianca arenaria di Ortigia, Noto e Modica depositata sugli scenari capitolini; e così via enumerando uomini d’arte e spettacolo di successo, fino al ritratto vivido e allegro di Pippo Baudo, tanto legato al paese d’origine, ai paesaggi del catanese, ai profumi e ai saporiti ingredienti della “caponata di Militello”. Uomo della tradizione cattolica, democratica e popolare siciliana, attivo sindacalista cislino, Salvo Guglielmino non dimentica di enumerare quanto grande sia stato il sacrificio dei lavoratori e dei democratici per aprire vie di rinnovamento nella vita dell’isola: dal suo mosaico si distilla il tragico 1968 dei braccianti di Avola uccisi dalla polizia durante una disperata lotta salariale contro gli agrari. Ci sono poi le figure ben delineate di vittime illustri della criminalità mafiosa, come Giuseppe Fava, Pio La Torre e Piersanti Mattarella, sullo sfondo del misterioso intreccio di poteri, mafiosi o meno, che portarono fin dal 1947 alla strage di Portella della Ginestra. Speranza riformista, disinganno e disillusione si alternano nella memoria del profilo civile di alcuni personaggi chiave nei tumultuosi cambiamenti nella vita politica e sociale italiana degli anni ’90: dal battagliero Sergio D’Antoni, nativo di Caltanissetta, protagonista degli accordi di concertazione, che salvarono l’Italia dalla bancarotta e dall’inflazione, all’epoca ideatore inascoltato di un sindacato unitario che “si fa governo”; e ancora emerge il ritratto sacrificale di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia, nativo di Canicattì, primo magistrato ad essere beatificato dalla Chiesa. Una Sicilia dal paesaggio affascinante, incrocio di antiche civiltà marinare e mondo arcaico dell’entroterra (dalla necropoli Pantalica ai “santoni” di Akrai) fa da scenario all’imperversare di episodi di malgoverno locali e nazionali, con l’alternanza di progetti faraonici incompiuti, dissesti stradali ed altre imprese lasciate cadere nel degrado; a questo stato di cose, si oppongono altrettante spinte vitali del genio produttivo siciliano quando affronta mille difficoltà per aprire occasioni di sviluppo. È la “metafora” di una questione meridionale che coinvolge problemi sempre aperti: dal “sogno di Enrico Mattei” con la vicenda malgestita del polo petrolchimico di Siracusa, in preda all’inquinamento, e pure asse di collegamento tra Europa e Medio Oriente ancora tutto da sperimentare; alla “speranza di Vittoria”, paese del ragusano dove l’agricoltura fiorisce e la disoccupazione è parola sconosciuta, un tempo provincia senza mafia ed oggi infestata dai signori del “pizzo” e dai capi clan; e ancora vale notare la “guerra del vino” che dalla Valle del Belice fino Pachino, ha visto mutare il volto dei vecchi latifondi agrari in centri fiorenti di produzione e integrazione multinazionale e però anche con forme nuove di “colonizzazione” dell’industria vinicola del Nord che scalza e mette in difficoltà i piccoli coltivatori. In una simile altalena di vecchio e nuovo, di aperture ricorrenti alla modernità mortificate da inattesi contrasti, ansie rinnovatrici e mutamenti imposti, il “microcosmo” dipinto da Salvo Guglielmino procede nell’inquadratura di costumi, abitudini, eredità arcaiche, tradizioni pagane e di un cattolicesimo che abbraccia tanta parte del temperamento stesso dei siciliani, messo a fuoco come popolo di emigranti perfino in patria, “sempre inquieti, insoddisfatti, pessimisti”, un carattere che Tomasi di Lampedusa associava al paesaggio malinconico e selvaggio dell’isola. Morale? “Devi imparare a convivere con ciò che non puoi superare”, osserva Guglielmino, citando Bruce Springsteen. E aggiunge: “è stato sempre quello che, in fondo, mi hanno insegnato mio padre e mia madre”.

Duccio Trombadori