Non è roba da psichiatria, per carità. Si mettano nuovamente l’anima in pace i magistrati di Milano, dopo essere stati presi di contropiede da Silvio Berlusconi con quell’orgoglioso e perentorio rifiuto di una verifica anche di natura psichiatrica, appunto, per vedersi riconoscere l’impedimento alle udienze del processo noto come Ruby ter. Che per una delle stranezze, a dir poco, del sistema giudiziario italiano - esso, sì, da analisi psichiatrica - è derivato contro l’ex presidente del Consiglio da un’altra vicenda giudiziaria, addirittura per prostituzione minorile, conclusasi però con la sua piena assoluzione. E poi anche con qualche sconfitta suppletiva delle giudici di primo grado che, avendolo condannato e per nulla trattenute dalla smentita subita in appello e in Cassazione, si sentirono diffamate da un bel po’ di giornalisti che le avevano criticate, fra i quali il sottoscritto, chiedendo centinaia di migliaia di euro di danni.

È solo da analisi psicologica e politica l’ultimo capitolo, in ordine rigorosamente cronologico, di quella che potremmo ormai definire la Berluconeide, versione in qualche modo aggiornata al Cavaliere e ai tempi nostri dell’Eneide, il poema epico di Publio Virgilio Marone risalente al 19 avanti Cristo. A Berlusconi, si sa, piace piacere, anche se non sempre ci riesce pur praticando con disinvoltura l’esercizio da lui stesso vantato di farsi concavo o convesso secondo le circostanze. Ho la sensazione che nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, quel giudizio sulla improbabilità, a dir poco, di un arrivo a Palazzo Chigi dei suoi pur alleati elettorali Matteo Salvini e Giorgia Meloni abbia avuto qualcosa a che fare col desiderio di compiacere al telefono il direttore della Stampa Massimo Giannini. Che lo aveva chiamato per fargli gli auguri e scambiare due chiacchiere tradotte in un “colloquio”, a sua svolta scambiato da molti per intervista, smentita perciò dallo staff dell’ex presidente del Consiglio.

Chi legge abitualmente la Stampa e il suo direttore ha ben capito da tempo il poco gradimento, diciamo così, dell’una e dell’altro per l’ipotesi, anzi l’accidente, di un governo Salvini o Meloni. Già poco convinto di suo di un simile sviluppo della situazione politica ed elettorale del Paese, Berlusconi può quindi ben essersi spinto a parlare col cuore in mano della cosa a Giannini immaginando Draghi al Quirinale alle prese col problema di nominare il presidente del Consiglio dopo le elezioni, anticipate o ordinarie che potranno rivelarsi.

Che neppure a Berlusconi piaccia un governo Salvini o Meloni non è una mia illazione, o fantasia maliziosa, avendo appena letto sul Giornale della stessa famiglia Berlusconi un lungo articolo dell’ex presidente del Consiglio titolato in un modo che più chiaro non poteva certo essere: Senza il centro moderato la destra regala il Paese alla sinistra. «Forza Italia - ha scritto Berlusconi a proposito anche del voto amministrativo di domenica, che non si presenta obiettivamente facile per la coalizione portata al governo nazionale dal Cavaliere nel 1994, nel 2001 e nel 2008 - non fa parte del centro- destra. Forza Italia è il centro- destra. Non si vince senza le nostre idee, oltre che ai nostri numeri. E noi siamo garanti della connotazione liberale ed europea della coalizione».

Questo ragionamento ha tuttavia un limite, stavolta tutto politico e per niente psicologico. Il garante di un partito o di una coalizione è semplicemente il suo leader, a meno che non si vogliano imitare, o scimmiottare, i pentastellati che si sono inventati la distinzione fra Giuseppe Conte leader in quanto presidente dell’omonimo MoVimento e Beppe Grillo “garante” o “custode”, come più recentemente ha voluto definirsi il comico genovese. Berlusconi è un uomo spiritoso ma, per fortuna, non un comico. Non può mettersi o sentirsi nella stessa posizione di Grillo separando fittiziamente le funzioni di leader e di garante, per giunta non in un partito ma in una coalizione di partiti.

È purtroppo accaduto negli anni scorsi, quando probabilmente egli riteneva indiscusso e indiscutibile il primato elettorale di Forza Italia, oltre che suo personale, che Berlusconi abbia imprudentemente teorizzato o accettato l’assegnazione della leaderhip della coalizione, e quindi la candidatura a Palazzo Chigi, al partito più votato. Che è diventato nel 2018, per pochi punti di vantaggio sui forzisti, la Lega di Salvini e potrebbe diventare la prossima volta la destra di Giorgia Meloni. È qui che sono nati i problemi, probabilmente destinati a crescere, anziché ridursi, al di là persino del rimprovero appena fatto a Berlusconi dall’amico sincero ed ex ministro degli Esteri e della Difesa Antonio Martino, in una intervista - guarda caso - proprio alla Stampa di Massimo Giannini, di avere troppo spesso sbagliato «nella scelta delle persone» e, ancor più, di non avere «coltivato una classe dirigente capace di rilanciare la sua politica». Che pertanto è stata condannata - aggiungo io senza l’autorevolezza di Martino, per carità - a camminare solo sulle gambe, o essere portata solo sulle spalle, o essere appesa solo alla salute e all’età dell’ex presidente del Consiglio.

Mi sembra francamente difficile dare torto al detto, ma anche al non detto, di Antonio Martino, felicemente sopravvissuto con i suoi quasi 79 anni ben portati, peraltro tentato - mi è parso di capire - dal votare domenica a Roma per Carlo Calenda al Campidoglio e non per il candidato del centrodestra, alle 260 mila sigarette che ha calcolato, da buon economista com’è, di avere fumato «in tutta la vita».