Da qualunque punto di vista la si guardi, la decisione che ha riguardato l’ex sindaco di Riace Domenico Lucano appare «abnorme» e «sproporzionata». Lo dicono tutti: giuristi, magistrati - magari sottovoce - avvocati e anche politici, perfino quelli che in qualche modo hanno ignorato Riace quando Lucano chiedeva loro aiuto. Anche perché - ed è del tutto lecito, ma qualche domanda la fa sorgere -, la Corte che ha giudicato Lucano ha deciso di riqualificare l’accusa di abuso d’ufficio contestata dalla procura (che prevede una pena da uno a quattro anni) in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, che prevede una pena tra i 2 e i 7 anni di reclusione.

L'accusa di associazione a delinquere

Per tutto il dibattimento, il presidente Fulvio Accurso ha insistito affinché l’ufficio di procura provvedesse a modificare i capi d’imputazione. In parte ciò è avvenuto, ma semplicemente isolando le singole condotte per individuare l’eventuale maltolto e calcolare il tempo di prescrizione. Ma in camera di consiglio, la Corte ha cambiato le carte in tavola, optando per la truffa, anche nella forma tentata. Caduta la concussione, il reato più grave contestato all’ex sindaco e che dunque ha fatto da base per il calcolo della condanna è quello di peculato, punito con il carcere da 4 a 10 anni. A ciò si aggiunge l’accusa di associazione a delinquere, messa in piedi «allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)», così orientando l’esercizio della funzione pubblica «verso il soddisfacimento degli indebiti ed illeciti interessi patrimoniali delle associazioni e cooperative». Insomma, Lucano, che di quell’associazione ne sarebbe stato a capo, avrebbe favorito le associazioni, senza intascare, come è emerso dal processo, nemmeno un euro. In aula è stato lo stesso teste principale dell’accusa, il colonnello Nicola Sportelli, ad evidenziare come il progetto sia nato con fini nobili e come lo stesso Lucano non si sia arricchito, indicando come parte dell’associazione quattro persone, Lucano compreso.

I giudici non hanno applicato le attenuanti generiche

Ma i giudici hanno riconosciuto il reato associativo per ben sette imputati su 27. Tutti “soldati” senza i quali il ruolo di capo di Lucano, che appunto non avrebbe ottenuto alcunché a livello economico, non avrebbe avuto senso. Quale sarebbe stata, dunque, la sua utilità? Un tornaconto politico. Che stando alla sua storia è uno solo: essere sindaco di Riace, un paesino di poco più di 2mila abitanti, ripopolato grazie ai migranti. Mai, infatti, ha tentato la strada del Parlamento, rifiutando anche una poltrona in quello europeo e scansando così la possibilità di poter godere dell’immunità. Nonostante si tratti di un incensurato, i giudici non hanno ritenuto di applicare le attenuanti generiche all’ex sindaco, come accade quando un imputato non fornisce alcun apporto contributivo nel corso del processo. Eppure in aula Lucano ha ammesso di aver consegnato le carte d'identità gratuitamente ad alcuni richiedenti asilo, tra le quali quella concessa ad una mamma nigeriana che ne aveva necessità per ottenere la tessera sanitaria e curare il figlio piccolissimo. Ma cosa emerge, in attesa delle motivazioni, dalla sentenza? Il modello Riace non viene messo in discussione. Ovvero, non c’è stato un “traffico” di esseri umani, dato che l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è naufragata alla prova dei fatti. Anzi, sosteneva lo stesso Sportelli: «Dal punto di vista della gestione umana sicuramente i beneficiari erano tenuti bene, sicuramente non era assicurato tutto quello che era previsto nel progetto, sicuramente abbiamo visto che dal punto di vista del personale non c’era un personale qualificato, sicuramente abbiamo visto che il personale era minore rispetto a quello che…, però i beneficiari erano tenuti bene».

Le pronunce del Tar e del Consiglio di Stato sul "modello riace"

Sui progetti si erano espressi anche Tar e Consiglio di Stato: «L’Amministrazione statale prima di adottare qualunque misura demolitoria deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi operando in modo da riportare a regime le eventuali anomalie», scriveva Palazzo Spada, sottolineando come «il potere sanzionatorio/demolitorio è esercitabile solo se l’ente locale che si assume sia incorso in criticità sia stato avvisato, essendogli state chiaramente esposte le carenze e le irregolarità da sanare, gli sia stato assegnato un congruo termine per sanarle, e ciò nonostante, non vi abbia provveduto». Lo Stato, però, non avrebbe fatto questo passo con Lucano. Avrebbe, cioè, potuto aiutarlo e sistemare le storture. Ma così non è stato. Anzi: per i giudici del Tar è «palesemente irragionevole e contraddittorio ritenere che, ad appena un mese dal decreto con il quale era stato rifinanziato il “sistema Riace”», il Viminale abbia diffidato l’ente ed avviato il procedimento per revocare i fondi. Come se un procedimento già chiuso fosse stato riaperto e modificato nel suo contenuto.

La gestione dei fondi

Il problema principale, secondo la Guardia di Finanza, è rappresentato dalla gestione dei fondi. Anche perché con quei fondi, oltre all’accoglienza, era stato fatto di tutto, compresi una fattoria didattica e un frantoio. E su questo Lucano pubblicamente più volte aveva ammesso un dato pruriginoso per i professionisti (veri) dell’accoglienza: con 35 euro a ospite si poteva fare molto di più che limitarsi a dare una casa e del cibo. Ovvero creare un sistema di integrazione reale, sfruttando i fondi per garantire a quante più persone possibile non solo di sopravvivere, ma di vivere in un contesto che li comprendesse davvero. E sul punto anche il gip Domenico Di Croce era stato lapidario: nonostante le opacità nella gestione del denaro, «il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti». Le cui conclusioni sarebbero state, in gran parte, «o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (...) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Poco conta, verrebbe da dire. Non foss’altro che proprio le accuse che maggiormente, secondo il gip, sembravano solide - e che sono servite per mandarlo ai domiciliari prima e fuori da Riace poi - sono state sconfessate dal processo. Che lo ha assolto dal reato di favoreggiamento, come già detto, nonché da quello di concussione, mentre risulta prescritta la turbata libertà degli incanti. Punti sui quali anche i giudici del Riesame e della Cassazione erano stati feroci: «Inconsistenza del quadro indiziario», ipotesi fondate su «elementi congetturali o presuntivi», inattendibilità dei testi, calcoli «errati» e insussistenza del pericolo di reiterazione del reato, aveva sentenziato il secondo Tdl rimettendolo in libertà.   Sempre per il Riesame, risultava congetturale la tesi secondo cui i prelievi di denaro sarebbero stati destinati a soddisfare interessi diversi dall’accoglienza e in merito all’associazione a delinquere veniva evidenziata la «inconsistenza del quadro indiziario relativo alle contestazioni dei reati fine» che «si riverbera negativamente sulla possibilità di configurare il delitto», in quanto «il programma perseguito dagli indagati non si è tradotto in condotte penalmente rilevanti». In merito alla raccolta differenziata, invece, secondo il Palazzaccio non apparivano sufficienti, e in ogni caso, non emergevano «con la necessaria chiarezza e coerenza argomentativa» indizi contro l’ex sindaco di Riace in relazione all’accusa di aver «turbato» le procedure di gara per l’assegnazione, nel suo Comune, del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti urbani, che veniva effettuato con la modalità dell’asinello porta a porta». Per l’accusa mancava un requisito fondamentale: l’iscrizione delle cooperative che se ne occupavano all’albo regionale delle cooperative sociali. Ma quell’albo, semplicemente, non esisteva.