Il tema del dibattito - nella trincea garantista - è giustamente il frenetico attivismo delle Procure, l’occupazione dei media con accuse non ancora provate, i provvedimenti sbagliati che provocano ferite, a uomini e imprese, che nessuna assoluzione tardiva potrà guarire.

Ma c’è un’altra questione, altrettanto importante, riproposta con prepotenza dalla sentenza della Corte d’Appello di Palermo. La questione dello spirito critico, dell’indipendenza intellettuale, della capacità di resistere alle pressioni della magistratura giudicante. Attenzione: qui non mi riferisco ai giudici per le indagini preliminari che decidono fuori dal contraddittorio. Ma ai tribunali, alle corti d’assise, ai giudici del dibattimento - insomma - che in questi anni si sono sintonizzati ( spesso inconsapevolmente) sulle frequenze della polizia giudiziaria e delle procure motivati da malintese esigenze di difesa sociale. Mi riferisco al “giudice emotivo”, incapace di fidarsi della prova, attratto dal teorema, vinto dalla ricostruzione suggestiva. Al giudice che ha finito per adattare la prova al fatto anziché arrendersi alla mancanza, all’insufficienza, alla contraddittorietà della prova del fatto.

La Corte d’Assise e la Corte d’Appello di Palermo hanno esaminato le stesse carte. Studiato gli stessi fogli. Solo che la seconda lo ha fatto con distacco. Ha usato diritto e buon senso, giudizio e prudenza, dopo aver spento la tv, richiuso i giornali, messo lo smartphone in modalità off- line. Ci siamo occupati dei pubblici ministeri. Qualcuno ha posto la questione dei giudici per le indagini preliminari. Abbiamo parlato meno delle sentenze pavide e di quelle scritte perché poi non si dicesse che. Fino a quando non è stata letta la sentenza di ieri.

                                                                                                                                             Francesco Verri (Avvocato)