«Se gli emendamenti relativi al Tribunale della famiglia dei minorenni e delle persone dovessero concretizzarsi nelle proposte anticipate, fermo restando una valutazione analitica all'esito della formalizzazione e approvazione degli stessi, il Cnf avrebbe motivo di soddisfazione». A dirlo è Maria Masi, presidente facente funzione del Consiglio nazionale forense, che ha accolto con soddisfazione l’emendamento licenziato dalla Commissione Giustizia in Senato e che porterà, nel 2024, alla nascita del Tribunale della Famiglia. Un’idea inserita nella riforma del processo civile e che ricalca, sostanzialmente, quella contenuta nella proposta di recovery presentata dal Cnf a dicembre scorso.

Si tratta, infatti, della «istituzione di un unico Tribunale dedicato alla famiglia ai minorenni e alle persone che concentra competenze, unifica e rende omogenei i riti, garantisce sempre l'attuazione dei principi del giusto processo e delle garanzie sottese ( soprattutto l'obbligo di ascolto del minore e rappresentanza dello stesso) - prosegue Masi -, semplifica e ottimizza i tempi delle procedure soprattutto con riferimento ai provvedimenti cautelari, garantisce la specializzazione dei magistrati e in ogni caso riorganizza gli aspetti ordinamentali in funzione delle esigenze di tutela da assolvere».

Se l'impianto dovesse confermarsi tale nella proposta e soprattutto nell'attuazione, prosegue Masi, «anche alcune riserve, in termini di garanzia per le parti, espresse da alcuni in occasione della proposta dell'emendamento Valente a tutela del minore nelle ipotesi di accertamento di violenza domestica, potrebbero attenuarsi poiché ridotti i tempi dell'accertamento qualificato dei fatti si assolverebbe alla tutela del minore e della donna che denuncia la violenza, senza tradire i principi di garanzia e di difesa».

Secondo Daniela Giraudo, consigliera e coordinatrice della Commissione Famiglia del Cnf, «la direzione di andare verso la specializzazione certamente merita un plauso, ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza che deve esserci una adeguata formazione, non solo riferibile ad avvocati e magistrati, ma anche a tutti gli altri soggetti che nel processo di famiglia sono essenziali, come gli assistenti sociali, gli psicologi e le forze dell’ordine».

Ma la formazione deve essere congiunta, «perché ognuno conosce il proprio ambito, senza conoscere gli aspetti critici del lavoro degli altri. Invece, laddove ci si potesse confrontare nel corso di questa formazione - continua Giraudo - si riuscirebbero a creare delle competenze che riescono ad intersecarsi, ciascuno per la sua quota di capacità e professionalità. Una sorta di staff che si occupi di queste materie che veramente potrebbe far crescere non solo la professionalità, ma avrebbe grandissimi risultati anche nel riflesso della società civile, restituendo un servizio complessivo che riuscirebbe a conciliare e risolvere situazioni che si trascinano per anni, con gravissimi conseguenze per tutti, ma soprattutto per i minori».

Le modifiche del rito

Ma la riforma del processo civile è un contenitore ampissimo per il quale non mancano aspetti di criticità, secondo gli addetti ai lavori. Per quanto riguarda la prima udienza, nodo critico della prima stesura degli emendamenti governativi e riscritto a seguito di un lungo confronto tra le forze di maggioranza, l’avvocatura avrebbe preferito il mantenimento della norma attuale, con magari la possibilità di rimodulare i termini previsti dall’articolo 183 del codice di procedura civile e l’obbligo del giudice di andare subito in decisione quando in prima udienza emerge una questione di rito o di merito che consente di definire il processo, come previsto dalla proposta A della relazione Luiso.

Rispetto alla prima versione, le preclusioni non sarebbero più collegate agli atti introduttivi, bensì alle memorie che si collocano tra questi e la prima udienza. Un avanzamento cronologico delle preclusioni, secondo il consigliere del Cnf Alessandro Patelli, che si avvicina sì alle richieste dell’avvocatura, ma che non le soddisfa completamente. «Le nostre richieste erano un po’ più radicali - spiega -, nel senso che l’intervento sulla fase introduttiva del processo non era visto come un aspetto essenziale, come lo è quello sulla fase decisoria, che rappresenta il collo di bottiglia che blocca e rallenta i tempi di resa giustizia». La previsione di memorie intermedie creerebbe una difficile gestione del processo, mentre un aspetto non considerato è che tale scambio rende necessaria la previsione di una dilatazione del termine per comparire. «Adesso abbiamo 120 giorni dalla notificazione dell’atto di citazione, anziché i 90 precedenti, che erano più che sufficienti - continua Patelli -. Insomma c’è una dilatazione, che in caso di differimento della prima udienza per la richiesta di una chiamata in giudizio di un terzo potrebbe portare ad aggiungere come minimo altri 120 giorni. C’è il rischio che ci si presenti davanti al giudice molto più tardi di quanto avvenga adesso».

Un allungamento, insomma, che tradirebbe lo scopo della riforma, senza centrare il problema della fase decisoria, per la quale l’emendamento governativo prevede la fissazione di un’udienza per l’assegnazione della causa in decisione, secondo Patelli «inutile». Quello che manca è soprattutto la presenza di una figura manageriale, il Court manager di derivazione anglosassone proposto dal Cnf nel “proprio” Recovery, idea che però non è stata colta, puntando tutto sulla procedura. «L’ufficio del processo - aggiunge Patelli - sicuramente darà un aiuto, ma è un istituto dal mio punto di vista un po’ sopravvalutato. Quello che serve è una gestione manageriale, perché alcuni tribunali funzionano bene e altri male, pur avendo lo stesso rito. Quindi è una questione di ordinamento giudiziario e di organizzazione concreta dei singoli uffici».

Il parere delle Camere civili

In attesa di un testo ufficiale, il presidente dell’Unione delle Camere civili non nasconde le perplessità che continua a nutrire in merito alle soluzioni che riguardano l’udienza di comparizione. Ben venga il tentativo del ministero di fare un passo verso l’avvocatura, prendendo in considerazione le criticità evidenziate, spiega al Dubbio, in particolare per quanto riguarda le sanzioni per chi chiede giustizia o si difende - che definisce «inaccettabili» e ora cancellate dal ddl - e l’introduzione di preclusioni e decadenze, «poco compatibili con la complessità di parte dei processi civili». Ma la soluzione trovata, secondo il leader dell’Uncc, non sarebbe comunque adeguata rispetto ai tempi elefantiaci del processo civile.

«Per risolvere il problema - sottolinea - si sarebbero soppresse preclusioni e decadenze e si sarebbe mantenuta la possibilità di modificare gli atti introduttivi, ma prima della prima udienza. Se questo è vero, sostanzialmente si va a modificare l’intera disciplina, che risale al 1993, per abbreviare il processo, se tutto va bene, di soli 50 giorni. E ciò mentre la durata media di un procedimento ordinario in primo grado è di 1270 giorni». Le conseguenze negative sarebbero tre: la prima è la crisi di adattamento. «È ovvio che un sistema consolidato, analizzato in maniera approfondita dalla giurisprudenza, fa sì che ci siano delle certezze che in un sistema nuovo non si avranno», spiega de Notaristefani. Poi c’è il problema della complessità, dal momento che in una stessa udienza i giudici tratteranno alcune cause con il nuovo rito e altre con il vecchio. La terza, forse la più importante, «è che attualmente tutte le decisioni che riguardano lo svolgimento del processo sono sottoposte al controllo del giudice.

In caso di irregolarità, dunque, il giudice ferma immediatamente il processo e dispone che si rinnovino gli atti. Se tutti gli atti vengono anticipati rispetto all’intervento del giudice questo controllo non sarà possibile, con la conseguenza che alla prima udienza, in caso di nullità, bisognerà ricominciare da capo». Il saldo, dunque, rischia di essere negativo. E ciò, aggiunge il presidente dell’Uncc, sulla base dell’esperienza: «Questo modulo processuale, anche se con degli aggiustamenti, ricalca in maniera significativa il vecchio processo societario, un modello fallito miseramente, proprio per questo motivo».

Il vero timore è, dunque, che il nuovo processo possa non produrre i risultati sperati nei termini di velocizzazione ipotizzati dal ministero. Anche perché ciò che serve, secondo de Notaristefani, è aumentare il numero dei magistrati. Per quanto riguarda, invece, le esenzioni fiscali, l’errore starebbe nella scelta di “favorire” la sola mediazione. «In Italia c’è un processo velocissimo, quello arbitrale, che dura pochi mesi. Più volte abbiamo chiesto un’agevolazione fiscale in tal senso, in quanto alleggerisce veramente il carico dei tribunali conclude -. Oggi si agevola la mediazione, ma se non funziona la vicenda finisce in tribunale. Se invece si agevolasse l’arbitrato questo ritorno in tribunale non ci sarebbe. Ma sorprendentemente queste agevolazioni non ci sono».