Cataldo Intrieri, sulle pagine di questo giornale, ha espresso il suo giudizio sulla Riforma penale, invitando l’Avvocatura penalista ad essere liberale, dunque riformista e rivoluzionaria. La Riforma Cartabia/Bonafede, - ché l’impronta dell’ex guardasigilli rimane forte nella delega che il governo si è assegnata e che è stata ratificata dal Parlamento (a proposito: tutto regolare dal punto di vista costituzionale?) - andrebbe letta nel suo complesso, senza limitarsi al tema della improcedibilità/prescrizione, per non cedere ai “risvolti pavloviani prevalgono oscura tutto”, come scrive Cataldo Intrieri. Dico subito che la riflessione non mi convince e rimango assai perplesso sulla tenuta costituzionale di un istituto processuale (?) quale la improcedibilità che “concorre” e si affianca ad un istituto sostanziale quale la prescrizione; dubbi che, nell’intervista di Simona Musco su questo giornale, ricorda Domenico Pulitanò, come prima di lui avevano già fatto Paolo Ferrua e Giorgio Spangher. La questione, se affrontata con piglio esclusivamente politico e visione “riformista”, rischia dunque di far perdere la bussola sui temi dei quali - e con i quali - saremo costretti a confrontarci. Primo fra tutti il diritto e il rapporto tra il diritto sostanziale e quello processuale. Qui il punto non è di “fallacia cognitiva della “rappresentatività”, cioè di aver elevato il particolare a simbolo del tutto, ma è un altro. Ecco qual è a mio modo di vedere: in che modo poniamo il rapporto tra norme processuali e sostanziali? O, detto altrimenti, siamo sicuri che la soluzione dei problemi del diritto sostanziale “passi” per l’utilizzo - questo sì improprio - delle norme processuali? Com’è noto la questione non è nuova. Già nel 1991, il codice di procedura penale venne impropriamente utilizzato come strumento di general prevenzione, sovrapponendo le norme del procedere a quelle del fatto tipico in un cortocircuito di sistema che ha prodotto enormi guasti. Sin da allora, è l’organo che procede - il Pm - a decidere su quale binario avverrà l’accertamento del fatto, così che anche un delitto comune (la corruzione, per esempio) può “scartare” sul binario del processo speciale e meno garantista per la semplice contestazione “forzata” di un’aggravante da articolo 7. In questi casi, chi ripaga il diritto del cittadino di essere giudicato secondo le regole ordinarie e garantiste del processo ordinario? La Riforma Cartabia/Bonafede replica il medesimo errore e lo rafforza fino ad elevarlo sul piano della discrezionalità: sarà il magistrato inquirente a stabilire quale “tempo” occorre al processo e sarà il suo collega, magistrato giudicante, a dare al processo un tempo “supplementare” con una semplice ordinanza. E non mi si venga a dire che l’ordinanza andrà motivata, ché siamo abituati a leggere ordinanze, ad esempio in materia di sospensione dei termini di custodia cautelare, “normoriproducenti”; provvedimenti che sono vuoti simulacri motivazionali, utili a bloccare discrezionalmente il tempo. Insomma, andiamoci cauti con l’ansia riformista, tanto più se è alimentata da un compromesso al ribasso, al quale non sono estranei piccoli “ricatti” del “mercato della politica”. In gioco ci sono diritti dei cittadini. Di tutti noi. Marco Siragusa, presidente Camera penale Trapani