«Intervenire implementando la magistratura togata. Le riforme del rito non sono la soluzione o almeno non sono la soluzione primaria alla gravissima crisi della giustizia che affligge il nostro Paese». A sostenerlo è Laura Salvaneschi, avvocata dello studio Bonelli Erede, ordinario di diritto processuale civile e diritto dell’arbitrato nell'Università degli Studi di Milano. Professoressa Salvaneschi, la riforma della giustizia civile servirà a ridurre i tempi di durata dei processi e a rendere l'Italia un Paese più competitivo? Si legge nelle linee programmatiche sulla giustizia, delineate dal Governo, che l’obiettivo primario in tema di giustizia civile è «quello di riportare il processo italiano a un modello di efficienza e competitività», anche in funzione di «una ripresa degli investimenti, tenuto conto della strettissima connessione intercorrente tra relazioni commerciali, produttività economica e funzionamento della giustizia». Il tema è davvero cruciale per rendere l’Italia un Paese più competitivo e le riforme devono quindi essere fortemente indirizzate al raggiungimento di questo scopo. Personalmente sono tra quelli profondamente convinti che per restituire efficienza al processo civile, riconducendone i tempi a “ragionevole durata”, servano importanti interventi organizzativi più che modifiche della disciplina processuale. Le riforme del rito non sono infatti la soluzione, o almeno non sono la soluzione primaria alla gravissima crisi della giustizia che affligge il nostro Paese. Quali altri sforzi in più occorrono? Quello che occorre sono importanti interventi organizzativi e una forte implementazione delle risorse. A fronte di un volume del contenzioso davvero abnorme e aggravato da un arretrato imponente, ciò che occorre sono misure organizzative drastiche di accrescimento degli organici della magistratura e di riorganizzazione del sistema, anche attraverso investimenti che consentano una implementazione degli strumenti e dei sistemi informatici e di digitalizzazione del processo. Le modifiche delle regole del rito, pur relative a norme che spesso meritano davvero una riscrittura, rischiano invece di produrre un effetto contrario, quello cioè dell’instabilità interpretativa cui si è assistito a valle delle numerosissime riforme che hanno interessato il processo civile.  La riforma servirà, dunque, a ridurre i tempi del processo civile se e in quanto saprà muoversi sul piano degli interventi organizzativi, strada quest’ultima sicuramente imboccata dal Governo, ma che andrà arricchita e implementata. Una delle maggiori zavorre è data dagli arretrati… È evidente che se il problema è, come sicuramente è, quello dell’abnorme volume del contenzioso civile in entrata annuale, sommato agli arretrati inevasi, rispetto alle risorse a disposizione della macchina giudiziaria, garantire al giudice la possibilità di essere coadiuvato da un ufficio, fatto anche da risorse giovani e ben selezionate capaci di alleggerirlo dei compiti preparatori della causa e di coadiuvarlo nello studio dei fascicoli, significa aumentare le sue capacità di fare fronte alla domanda di giustizia. L’Ufficio del processo è quindi un primo passo verso quel salto di efficienza che si vorrebbe ottenere, ma occorre anche una seria implementazione degli organici della magistratura togata, che è risorsa gravemente scarsa nel nostro Paese rispetto alle necessità di una giustizia efficiente, nonché una riorganizzazione di tutte le strutture giudiziarie nel loro complesso. Metto sul piano delle riforme che incidono sull’organizzazione implementandone l’efficienza anche il potenziamento degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, che agiscono a fianco della giurisdizione attenuandone i numeri e il peso. Questi strumenti serviranno a migliorare la giustizia civile? In questo la riforma ha imboccato una strada positiva, perseguendo un potenziamento di questi strumenti capace di buoni risultati. In proposito andrebbero per altro adottati alcuni correttivi, potenziando la mediazione non tanto sul piano delle materie rispetto alle quali è condizione di procedibilità, quanto piuttosto degli incentivi al suo utilizzo volontario, con abolizione del rilievo d’ufficio del suo mancato esperimento, nonché con potenziamento del suo utilizzo in corso di causa.  Giudico poi molto positive e capaci di dare nuovo sviluppo allo strumento, con deflazione del processo, le proposte che riguardano l’arbitrato, volte a una maggiore trasparenza nell’assunzione degli incarichi da parte degli arbitri, con rafforzamento delle garanzie di loro indipendenza e con uno spostamento sulla giustizia privata anche della tutela cautelare. Siamo dunque sulla buona strada? Credo che la riforma potrà ridare competitività al nostro Paese, ma che occorra agire ancora con maggior coraggio sul piano delle riforme organizzative intese in senso ampio, cioè non solo con riferimento agli organici della magistratura, ma anche all’intera organizzazione della giustizia, con conservazione e rafforzamento della digitalizzazione dei sistemi e implementazione delle soluzioni consensuali. Alcune critiche alla riforma hanno riguardato il "principio di eventualità". Cosa pensa a tal riguardo? Le critiche cui fa riferimento riguardano la fase introduttiva del giudizio e non posso che condividerle. È noto che con riferimento a questa fase la “Commissione Luiso” aveva elaborato due proposte alternative. La prima, dichiaratamente basata sulla consapevolezza che i ritardi dipendono da questioni organizzative e non dal rito in vigore, ritenuto un “adeguato punto di equilibrio fra il sistema delle preclusioni e il diritto di difesa”, era volta al mantenimento del sistema attuale con poche modifiche, attinenti alla possibilità della immediata rimessione della causa in decisone senza il passaggio dalle memorie di cui all’articolo 183 del Codice di procedura civile e alla possibile riduzione a metà dei termini per le memorie stesse per il caso di loro concessione. La seconda basata invece sull’anticipazione agli atti introduttivi delle preclusioni assertive e istruttorie, con poche successive possibilità di replica e integrazione. Il Governo ha scelto di percorrere la seconda via ed è su questa scelta che si appuntano giustamente le maggiori critiche, perché è sbagliato e illusorio pensare che nelle cause complesse la formazione del tema del contendere possa essere così limitata con beneficio per i tempi del giudizio. In proposito si dovrebbe quindi tonare alla prima proposta della Commissione, perché idonea a garantire una equilibrata formazione del tema del contendere anche nelle cause oggettivamente o soggettivamente complesse.