Con il consueto linguaggio asciutto, tipico del miglior giornalismo anglosassone, il Fatto Quotidiano del 25 aprile ci propone l’ennesimo scoop che non è uno scoop.Oggetto: il PdA, il partito degli avvocati (anzi degli “azzeccagarbugli” per citare letteralmente) che sarebbe il “vero partito di maggioranza nell’attuale Parlamento”. Interessante concezione quella di una maggioranza che rappresenta il 13% del totale. Ma anche a considerarla una maggioranza relativa (attributo che viene ovviamente omesso) siamo sempre, com’è ovvio, davanti all’uso di un’iperbole a effetto, atteso che, politicamente, ci sono vari partiti che superano per consistenza quella percentuale.Ma che vuol dire, si dirà, qui si parla della percentuale rispetto alle varie categorie professionali. Peccato che la Camera delle professioni non è prevista nel nostro ordinamento e, pur essendosene discusso in Assemblea Costituente, non fu mai varata anche perché, forse, ricordava troppo la Camera dei fasci e delle corporazioni. Ma anche considerando la questione in questa prospettiva e dunque dimenticando tutte quelle quisquilie e pinzillacchere come il divieto di mandato imperativo, il conflitto tra maggioranza e opposizione, la disciplina di partito e l’esplosività divisiva dei temi che riguardano la giustizia (e quindi anche l’avvocatura), veri e propri totem ideologici sui quali i partiti si scannano da decenni, mal tollerando qualsiasi dissenso al proprio interno… anche considerando tutto ciò, la riflessione del Fatto appare quantomeno allusiva e tendenziosa.Sul piano quantitativo e sul piano del merito.Sul piano del quantitativo lo scoop non scoop ci dice che è stato battuto qualsiasi record. Conclusione tratta, non da uno studio sistematico sulle varie legislature repubblicane dal 1948 a oggi, ma utilizzando come termine di paragone semplicemente la precedente (la XVII): oggi gli avvocati sono 132, allora erano 113. Notiziona! Peccato che se si fosse andati appena un po’ indietro si sarebbe scoperto che nella XVI legislatura gli avvocati erano 130 (dati di Italia Oggi 22 marzo 2013). Due in meno rispetto a oggi. È vero che nella trance agonistica di ispirazione olimpionica anche un secondo basta per stabilire un record, ma francamente una differenza di due parlamentari su quasi mille non pare una gran notizia.Per non parlare poi di quanto nefasta, se si guardano i numeri, dovrebbe considerarsi, con questo metro, la madre di tutte le assemblee parlamentari, quella Costituente che lavorò tra il 1946 e il 1948 a scrivere la Carta costituzionale, avendo tra i propri 556 componenti il 32,45 per cento di avvocati. Questi sono i dati che forniscono coloro che sul punto hanno fatto ricerche scientifiche, senza improvvisazioni giornalistiche (Cammarano F., Piretti M. S., I professionisti in Parlamento, in Malatesta M. - a cura di, I professionisti, Torino, Einaudi, 1996, p. 560), ricordando anche che nella I legislatura gli avvocati erano il 26 per cento alla Camera e il 36 per cento al Senato, nella II il 24 per cento alla Camera e il 30 per cento al Senato… e via discorrendo. Quanto al merito, lo scoop è ancora più deludente. Assimilare una professione a una corporazione senza il benché minimo accertamento empirico di ipotetiche convergenze granitiche sulla mera e bieca difesa degli interessi professionali significa semplicemente affidarsi agli stereotipi e solleticare, con una tipica strizzata d’occhio lievemente populista, gli umori del proprio lettorato. Sarebbe come dire appunto che i vari avvocati e giuristi che parteciparono all’Assemblea Costituente (uno per tutti Piero Calamandrei), per questo solo fatto, abbiano esercitato il proprio mandato con l’unica preoccupazione di tutelare la propria “casta” di appartenenza (consiglio a questo proposito nell’ambito della vastissima letteratura, la completa e approfondita voce dell’Enciclopedia Treccani su “I giuristi alla Costituente”, redatta da Enzo Cheli, costituzionalista e già Vice Presidente della Corte costituzionale). Nessun nega che il problema della rappresentanza politico-istituzionale debba confrontarsi con il tema degli interessi e dei conflitti di interessi (non solo professionali), problema delicatissimo per le democrazie contemporanee. Ma, a mio sommesso parere, farlo in maniera così rozza e sommaria non aiuta la causa che si vuol difendere, per affermare la quale, invece, bisogna, in ogni settore, agire con grande consapevolezza della complessità dei problemi, piuttosto che con la foia scandalistica e pruriginosa dei falsi scoop. Tanto più che, in questo campo, è proprio il caso di dire “chi è senza peccato…” con quel che segue.