Forse il caso Palamara inizia a determinare riflessioni concrete, anche se non produce ancora decisioni conseguenti. Qualche giorno fa, su Il Fatto Quotidiano, Henry John Woodcock, pubblico ministero assai noto e talvolta discusso, ha posto due temi seri sul tappeto: la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale e quella della separazione delle carriere, nell’ottica della crisi di credibilità della magistratura alla luce di quello che lui stesso ha definito il “terremoto Palamara”. Si tratta di una presa di posizione quasi “scandalosa”, anche per la sede nella quale ha formulato le sue osservazioni, finalmente aperta a posizioni eterodosse. Tuttavia, per chi, come me, ritiene che è importante ciò che si dice o si scrive, piuttosto che la persona che sostiene certe opinioni o il luogo dove le esprime, conta soprattutto la sostanza. Rileva, cioè, un approfondimento libero da pregiudizi ed aperto a visioni prospettiche non asfittiche o miopi. Ora, occorre ammettere che il modello di processo penale esistente è solo in parte in linea con il complesso delle attuali norme costituzionali. Infatti, non ci si può certo limitare ad una analisi della Costituzione così come delineata nel 1948, la quale aveva come stella polare il processo inquisitorio; occorre, infatti, sviluppare i successivi dettati costituzionali, sulla scia del riformato articolo 111, ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che, con la formazione della prova in dibattimento, nel pieno contraddittorio delle parti, ha effettuato una scelta univoca, nel senso del modello accusatorio, del resto ormai decisamente prevalente nelle democrazie più mature ed evolute. Tale modello richiede la presenza di un giudice realmente terzo, di un pubblico ministero che svolga pienamente il compito dell’accusa e di un difensore in grado di controbilanciare, con la propria attività, quella del pubblico ministero. Non vi è dubbio, poi, che è necessario ragionare anche sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ( di cui all’art. 112 Cost.). Del resto, scriveva già Giovanni Falcone (allora, come oggi): tutto è «riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti… mi sento di condividere l’analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l’esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e di coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività» (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte 1982/ 1992, Firenze, Sansoni, 1994, pp. 173 e 174). Pertanto, non è affatto pleonastico stabilire chi debba scegliere le notitiae criminis: se debba esserci una indicazione “politica” (parlamentare?); o se debba essere il vertice dell’ufficio a fissare i criteri ( si pensi alle opinabili circolari di alcuni procuratori della Repubblica); oppure se debba agire, come oggi prevalentemente avviene, in assoluta autonomia ogni singolo pubblico ministero con una totale discrezionalità che rischia di tramutarsi in arbitrio. E sono a tutti note recenti vicende-limite nelle quali si ha il sospetto che il pubblico ministero abbia esercitato il proprio delicato potere scegliendo più «le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare» ( R. H. Jackson, The Federal Prosecutor, «Journal of the American Judicature Society» , 1940). Ma, forse ancora di più, occorre interrogarsi sui rapporti tra giudici e pubblici ministeri, e tra questi e i difensori, nella cornice del processo accusatorio. Ancora Giovanni Falcone (alcuni decenni fa): «Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’anacronistico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura» (Giovanni Falcone, interventi e proposte, cit., p. 179). Ed invece, quasi solo in Italia, ed in Francia – ove, però, il pubblico ministero è sottoposto gerarchicamente al Ministro della Giustizia, soluzione che io credo si debba evitare – pubblici ministeri e giudici sono reclutati con lo stesso concorso e possono passare da una funzione all’altra. Invece, nei Paesi nei quali si è affermato il sistema processuale accusatorio il pubblico ministero non appartiene allo stesso corpo dei giudici. A compiti e funzioni separate corrispondono, linearmente e coerentemente, carriere e ruoli distinti. Si tratta, mi rendo conto, di questioni delicatissime e complesse. Ma non c’è più tempo per lasciare tutto immutato, come da decenni: occorre fare riforme di sistema, prima che “il sistema” faccia sprofondare, ancora di più, la nostra giustizia penale e, in definitiva, la nostra stessa democrazia. *Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Ex componente Consiglio Superiore della Magistratura