Il limite dei due mandati, certo. Ma c’è anche un’altra questione ad agitare gli animi pentastellati: «Chi lo paga lo stipendio a Conte e Casalino?». Sì, perché la storiella della politica come hobby, o di “milizia” per nobilitarla con l’usanza svizzera, non funziona più.

Neanche in casa cinque stelle. Quello del politico è un mestiere, anche particolarmente impegnativo, e come tutti i mestieri deve essere adeguatamente retribuito.

Magari anche bene. E Conte non fa eccezione, anche se bisogna trovare un modo per finanziarlo, visto che l’avvocato non è un parlamentare. Servono fondi. Quegli stessi fondi ai partiti che il governo Letta ha cancellato nel 2013 terrorizzato dalla campagna martellante del grillismo.

Per questo la strada percorribile rimane una sola: accettare il due per mille destinato dai contribuenti, come sembra intenzionato a fare l’ex premier. Una bestemmia per l’ortodossia del partito liquido capace di sopravvivere con le donazioni degli iscritti e tanto volontariato. Per i puristi sarebbe il passo definitivo per omologare il M5S identico alle altre forze parlamentari, un’evoluzione che proprio il “garante” ha sempre osteggiato con forza.

I tempi però sono cambiati e una giravolta in più o in meno non farà certo la differenza. Che sarà mai il due per mille dopo i capi politici, le alleanze con chiunque e la responsabilità al posto del Vaffa? Un partito ha bisogno di risorse. Del resto sono lontanissimi i giorni infuocati dello “Tsunami Tour” con cui Beppe Grillo si preparava a spazzare via la Terza Repubblica. La casta non fa più paura, ora che persino Draghi, a sentire il fondatore, è diventato un «grillino».