Molto bene: il ministro Dario Franceschini ha abolito per decreto la commissione che censura le opere cinematografiche.

Addio ai tagli da bassa macelleria delle scene “oltraggiose”, addio alle pellicole gettate al rogo e ai registi messi alla berlina dalle zelanti polizie della morale.

Una decisione che era attesa da molto tempo e che il mondo della cultura italiana saluta giustamente compatto: «Da oggi i nostri artisti sono più liberi», ha esultato Franceschini nel plauso generale. Eppure questa tardiva riforma lascia una strana sensazione in bocca. Come se entrasse in scena quando ormai lo spettacolo è finito e il sipario arrotolato. A luci spente.

La rappresentazione plastica di questo tramonto della settima arte sono le nostre sale, malinconicamente chiuse per la pandemia di Covid, molte delle quali destinate a non riaprire mai più.

Con più malizia verrebbe da dire: è facile abolire la censura quando il cinema è morto. Mica ferito o malconcio, proprio morto stecchito!

Non nella sua produzione industriale che rimane florida, e neanche nei suoi contenuti artistici, che continuano a deliziarci o a irritarci con fortune alterne; è il suo ruolo sociale che si è estinto, la sua capacità di parlare un linguaggio altro, diverso dal teatro, diverso dalla televisione, diverso dalla “comunicazione” in senso stretto e soprattutto diverso da quello totalizzante del web. Spesso estraneo alla morale e al senso comune, contro cui si è scagliato per oltre un secolo.

Lo hanno imbustato negli involucri delle grandi piattaforme streaming, Netflix, Amazon prime, Disney plus, immesso un tanto al chilo nel flusso alienante della serialità, venduto e divorato con la stessa foga bulimica con cui mangiamo il nostro dolciume preferito.

Non più un’evasione, una via di fuga, ma una piccola droga quotidiana che consumiamo nel chiuso delle nostre case. Basti pensare al fenomeno del binge watching a quel senso di dipendenza e di vuoto che trasmette la visione continuata di ore e ore di serie tv. Niente tempo di attesa tra uno spettacolo e l’altro, nessun pensiero che possa lievitare.

Eppoi c’è una ragione di merito che rende a suo modo superflua la riforma Franceschini: quale cineasta rischierebbe oggi di venire censurato per una sua opera? Praticamente nessuno.

Per rimanere nello stivale pensiamo al Pasolini di Salò e le 120 giornate di Sodoma, al Fellini della Dolce vita o a tutta la produzione di quel geniaccio provocatore di Marco Ferreri. Chi mai oggi realizzerebbe film del genere?

E' sparito il sesso, è sparita la critica al potere, alle religioni, al conformismo. Con una dissolvenza incrociata anche la satira si è diluita nella comicità innocua e rassicurante da prima serata, devota al culto manicheo del politically correct. Che mai rimetterà in discussione le nostre certezze, che mai rovescerà le carte in tavola per mostrarti il mondo da un’altra prospettiva.

Una patina di perbenismo che sembra il marchio di fabbrica di questa epoca, dominata da maestrini con la penna blu che danno il “buon esempio” e si adoperano perché tutti lo facciano, e che ha rinunciato a mettere in scena il male, a osservare il mondo con lo sguardo distorto dei cattivi o dei “mostri”.

Già i “mostri”, rappresentati dalla commedia all’italiana dei grandi cineasti artigiani come Risi, Germi, Monicelli o appena poco più sofisticati come Scola; autori di autentici capolavori e di ritratti memorabili, animati dalle le grinte di Sordi, Gassman, Tognazzi, vere e proprie maschere popolari, cartina di tornasole del carattere nazionale: egoisti, vanitosi, puerili, vigliacchi, meschini, sessisti, razzisti, grotteschi, insomma tremendamente veri.

Mostrando quel bestiario italico non si voleva salire sopra il pulpito, non si voleva puntare il dito verso gli altri per metterli alla gogna, ma al contrario la ferocia era rivolta contro se stessi.

Nel cinema contemporaneo i villain hanno invece il sottopancia incorporato, sono funzioni narrative senza sfumature, costruiti come esempi alla rovescia con cui è impossibile identificarsi. Mero contraltare del “messaggio” positivo che si è deciso di trasmettere.

Fa impressione pensare che nell’Italia di oltre sessant’anni fa la messa in scena di personaggi sgradevoli e negativi non aveva bisogno di etichette da appiccicare, di didascalie e disclaimer come invece avviene oggi con l’opera di revisione morale delle vecchie pellicole sui cataloghi in streaming che tanto ha fatto discutere la scorsa estate.

Il meccanismo millenario della catarsi artistica era dato per implicito, lo abbiamo smarrito senza nemmeno rendercene conto.

Ma allora che bisogno c’era di abolire la censura quando la censura è già dentro di noi?