«Lo stesso ufficio i cui uomini erano testi dell'accusa in un processo che seguivo come avvocato ha registrato la mia telefonata in cui discutevo della strategia difensiva di quel processo con una consulente. Com’è possibile questa cosa?». Nell’indagine di Trapani sulla nave Juventa, finita nella bufera per le intercettazioni a carico di giornalisti e avvocati scovate dal quotidiano Domani, il nome di Michele Calantropo, penalista di Palermo, compare al progressivo 1877. Al telefono con lui, il 15 novembre del 2017, c’è Nancy Porsia, giornalista freelance, il cui telefono è stato messo sotto controllo dal Servizio centrale operativo con lo scopo di scoprire i legami tra ong e trafficanti di uomini sulla rotta Libia-Italia. Per Calantropo, impegnato nella difesa di Medhanie Tesfamariam Behre, il giovane eritreo rimasto in carcere per tre anni per uno scambio di persona, quella con la giornalista è una telefonata di lavoro. L’intento è quello di chiedere a Porsia di testimoniare al processo che vede imputato il giovane, con lo scopo di ricostruire le reali dinamiche migratorie della Libia, diverse, secondo il difensore, da quelle ricostruite dalla polizia giudiziaria attraverso le sole intercettazioni telefoniche. Ad ascoltare la telefonata, all’insaputa dei due interlocutori, ci sono però anche gli uomini dello Sco. Gli stessi che al processo a carico di Behre verranno interpellati dall’accusa come testimoni della sua colpevolezza. Un vero e proprio corto circuito, secondo Calantropo, tra i quattro avvocati finiti nella rete della procura nello svolgimento della propria professione. Conversazioni irrilevanti per l’indagine sulla Juventa, la nave della Ong tedesca Jugend Rettet, accusata di concordare i soccorsi con i trafficanti, ma comunque ascoltate, trascritte e depositate con l’avviso di conclusione delle indagini a carico delle 21 persone coinvolte nell’inchiesta. «Com’è possibile che questi atti risultino depositati? - si chiede Calantropo - Al di là del fatto che le intercettazioni andavano interrotte, quello che non comprendo è perché questa informativa sia stata depositata. Non ha alcuna rilevanza nel procedimento specifico e, per altro, sono intercettazioni che si muovono in un ambito assolutamente fuori legge». Il procuratore Maurizio Agnello ha già assicurato la distruzione delle conversazioni, ma per Calantropo non basta. «Non solo non sono rilevanti, sono lesive di ogni garanzia costituzionale e violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il codice di procedura penale - sottolinea -. La mia domanda è: sotto un profilo giuridico, chi ha controllato quali fossero le carte da depositare in questo fascicolo?».  

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  Dalle carte si evince un fatto: la polizia giudiziaria era consapevole che al telefono ci fosse un avvocato. Lo si evince dalle annotazioni che precedono la trascrizione del dialogo, riproposto quasi per esteso. «C’è una grande mistificazione su come funziona il traffico dei migranti», appunta la pg trascrivendo le parole di Calantropo, che dunque chiede a Porsia di poter raccontare quello che ha visto con i suoi occhi in Libia. L’avvocato spiega al telefono la propria strategia: a fronte del deposito, da parte della Procura, di un’attività integrativa d’indagine, prospetta una possibile richiesta istruttoria ulteriore rispetto a quanto già fatto. «Il Servizio centrale operativo, in quel periodo, era impegnato in quel processo davanti alla Corte d’Assise di Palermo - spiega -. Lo stesso ufficio, insomma, che nello stesso momento stava registrando una conversazione perfettamente inerente a quel procedimento». A fianco a quell’intercettazione c’è una nota: «Importante». E ciò nonostante quella conversazione nulla aggiunga all’indagine sulla Juventa, chiusa qualche settimana fa. «Ma perché sarebbe stata importante? - si chiede Calantropo - Sicuramente non lo è in questa indagine. E allora per cosa lo sarebbe?». Il processo a carico di Behre, alla fine, si risolve con una vittoria a metà: nella sentenza viene certificato «un granitico quadro probatorio in ordine all'identità dell'imputato», acclarando «l'errore circa l'identificazione del predetto, il quale è persona fisica diversa dal trafficante ricercato (Mered Medhanie Yehdego, ndr)». Insomma, non era lui uno dei capi di una grande organizzazione di trafficanti di esseri umani che avrebbe portato da una costa all’altra almeno 13mila persone. Behre è stato comunque condannato a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver avuto contatti con un trafficante di esseri umani, ma è stato rilasciato in quanto aveva trascorso in carcere tre anni, periodo massimo di detenzione previsto per quel reato. «Quella telefonata era quindi tutt’altro che irrilevante ai fini della mia strategia difensiva», aggiunge Calantropo, che ricorda un precedente, nello stesso processo: «La procura di Palermo ha intercettato due miei interpreti-consulenti che parlavano di fatti processuali e ed ha perfino depositato queste intercettazioni», spiega il legale. Che ora invoca un intervento a tutela dell’avvocatura. «Discutiamo di principi che vengono cristallizzati nell’articolo 6 e nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha sottoscritto - conclude -. Discutiamo dell’articolo 24 della Costituzione, dell’articolo 103 del codice di procedura penale. Non è un problema del singolo avvocato, stiamo mettendo in discussione i principi cardine di uno Stato democratico. Il sistema è democraticamente bilanciato? Il diritto di difesa esiste ancora oppure no? Oppure si possono ascoltare tutte le conversazioni inerenti ai processi a cui è interessati e fare ciò che si vuole?».