Nel corso della scorsa settimana, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) ha adottato la “Delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi”. Si tratta di un’assoluta novità per l’ordinamento italiano, con cui l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa traccia un quadro di principî e regole di condotta applicabili al delicato rapporto tra esercizio del potere giudiziario ed utilizzo di social network e strumenti di comunicazione elettronica. Non è infatti il tema del (sacrosanto) esercizio della libertà di manifestazione del pensiero anche per il tramite della Rete a essere oggetto di raccomandazioni, ma la necessità di rafforzare la consapevolezza del corpo giudiziario rispetto alla costante influenza che il “quarto” (e forse più potente) potere, quello dell’informaziona digitale, esercita sulle dinamiche democratiche. Accogliendo gli stimoli provenienti da entità sovranazionali (come l’ONU o lo European Network of Councils for the Judiciary), il CPGA ha discusso e deliberato un corpus di regole chiaro, incisivo, ma non necessariamente esaustivo, certamente fortemente innovativo e con una grande utilità pratica. Scendendo nel dettaglio, il decalogo sull’utilizzo dei social da parte dei giudici amministrativi focalizza l’attenzione su tutte le forme di comunicazione elettronica passibili di diffusione massiva: la facile e simultanea riproducibilità e veicolabilità di contenuti testuali e immagini possono configurare vulnus di difficile eradicazione per il prestigio dell’Istituzione e la funzione (e posizione) che essa ricopre nella società contemporanea. L’intervento della magistratura amministrativa italiana si allinea inoltre alle buone prassi adottate da taluni Stati membri dell’UE (ad esempio Belgio, Francia e Spagna) nonché da Gran Bretagna e Stati Uniti (seppur con differenti modalità), con lo scopo di prevenire qualunque tipo di contaminazione tra lo svolgimento di attività precipuamente personali e private e l’esercizio di funzioni proprie dell’autorità giudicante. Le linee-guida evidenziano così quanto labile possa risultare lo “scudo” dell’anonimato protetto e degli pseudonimi, soprattutto ove l’utente utilizzi i social per promuovere attività economiche oppure travalichi i parametri di continenza espressiva propri della categoria professionale di appartenenza. Si pensi ancora ai possibili rapporti di “amicizia” (finanche involontari) con parti e difensori, o alle ricadute in termini di sicurezza personale connesse alla (spesso inconsapevole) condivisione dei dati di geolocalizzazione. Le regole del mondo reale valgono anche in quello virtuale, si sa e lo si ripete da decenni: ma l’architettura di Internet e le straordinarie funzionalità offerte dalle piattaforme avvolgono l’utente nell’ecosistema digitale incentivando la sovrapproduzione di informazioni, il cui controllo (e lo sfruttamento per plurime finalità) è immediatamente posto nelle mani di soggetti privati. Questo fenomeno di fatto conforma in maniera nuova – e con effetti ancora tutti da verificare – quel formidabile strumento di «dissoluzione discorsiva del potere» che Habermas identifica nella sfera pubblica. È lampante - soprattutto nel clima di perdurante emergenza che siamo chiamati a vivere - come il livello “effimero” e quello “fisico” della sfera pubblica si trovino oggi cristallizzati in una dimensione “astratta” come quella digitale che è altamente soggetta ad omologazione e polarizzazione. Si pone così il più ampio problema dell’effettività delle tutele della persona umana in Internet da declinare non soltanto in senso individualistico e “privatistico”, ma in una più ampia dimensione collettiva. Si pensi alla crescente importanza di quel diritto all’“autodeterminazione informativa” declamato per la prima volta dalla giurisprudenza tedesca di inizio anni ’80 quale pilastro del concetto di riservatezza informatica innanzi all’ineluttabilità della circolazione dei dati come volano di “crescita” e “progresso”. In definitiva, la delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa risulta particolarmente significativa e coraggiosa; è tempo che si muovano nella stessa direzione le altre magistrature e la stessa Avvocatura; davvero non si può più assistere allo scellerato uso dei social da parte di alcuni magistrati e avvocati, che fanno danno: a se stessi, alle Istituzioni che rappresentano, ai terzi offesi da alcuni messaggi, alla società nel suo insieme, perché se la classe dirigente si arrende alla “deriva da tastiera” ed al controllo privato ed oligopolista dei dati, delle tendenze e, in ultima analisi, delle scelte individuali e collettive, non c’è futuro possibile. Frattanto i giudici ammnistrativi fanno da apripista, e forse non è casuale che a pochi giorni di distanza dalla delibera, il Consiglio di Stato, con una meritoria pronunzia, abbia tra l’altro ricordato che Facebook non è un ente di “beneficenza” e che i contratti di accesso al servizio soltanto in apparenza sono “gratuiti”! *Professore di diritto comparato della protezione dei dati personali nell’Università di Salerno