Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, spiegava che la pena non protegge la società perché è buona, bensì è buona perché protegge la società. In altre parole, la somministrazione di un provvedimento penale sortisce l’effetto di rassicurare il corpo sociale, in particolare nei periodi di precarietà politica ed economica, quando la società è attraversata da spinte centrifughe. Capita spesso che sulle paure che attraversano i membri di un aggregato collettivo si innestino le ambizioni di attori desiderosi di ricavarsi una rendita di posizione. Esponenti politici, giornalisti, attivisti, magistrati, sia a destra che a sinistra, hanno gioco facile a costruire le loro carriere a partire dalla loro presunta “durezza” nei confronti della criminalità. Se negli Usa, dove spesso sceriffi e procuratori vengono eletti a suffragio universale, la rendita della paura rappresenta un elemento lampante, qui da noi si ricorre al pretesto dell’emergenza. Terrorismo, mafie, corruzione, e adesso la pandemia, hanno plasmato la scena pubblica italiana degli ultimi 40 anni, producendo da un lato frequenti lacerazioni all’interno della cornice dei diritti civili, dall’altro ponendo nella scena pubblica una folta pletora di imprenditori morali, che hanno fatto della “legalità”, ovvero della riduzione delle libertà civili in nome dell’emergenza, la loro cifra. Nel caso dell’ergastolo ostativo, ci troviamo esattamente in questo contesto. La Consulta è chiamata in questi giorni a decidere della sua abolizione, sulla falsariga di sue precedenti decisioni che consentivano ai condannati per associazione di stampo mafioso di fruire dei permessi. Nella prospettiva di una decisione della Corte Costituzionale in tal senso, si mobilità lo schieramento avverso: editoriali, comitati, interviste a parenti delle vittime, tentano di mettersi di traverso all’abolizione di una misura afflittiva unica nella sua declinazione discriminatoria, nella misura in cui mette in relazione la possibilità di accedere ai benefici di legge alla collaborazione dei condannati. Ovviamente, gli scherani dell’ergastolo ostativo, fanno leva sull’aspetto emozionale, evocando Falcone e Borsellino, in particolare il primo, a cui attribuiscono la paternità del 4 bis, che avrebbe introdotto il provvedimento. Alla sua eventuale abolizione già si paventa che si susseguano nuove stragi e nuove proliferazioni di attività illegali da parte delle mafie. A nostro giudizio, è necessario che si stemperi un attimo lo zelo forcaiolo, e ci si prodighi in uno sforzo di onestà intellettuale, per inquadrare la questione in maniera più adeguata. Innanzitutto, se è vero che il 4 bis lo introdusse Falcone, non è vero che prevedesse l’ergastolo ostativo. Il magistrato palermitano, nella stesura iniziale del provvedimento, lasciava la valutazione nelle mani della magistratura di sorveglianza, così come avviene negli altri casi. Il meccanismo premiale veniva riservato a chi scegliesse di collaborare. Fu sull’onda delle stragi di Capaci e via D’Amelio, nel contesto di attentati stragisti che avevano luogo in parallelo alla più grave crisi di legittimità registrata dalla Repubblica Italiana sin dalla sua istituzione, che il ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli, introdusse questa variante. Finito il periodo stragista, arrestati alcuni degli esponenti mafiosi più pericolosi, una tale variabile, già discutibile per la disparità che introduce,  può essere tranquillamente abolita. In secondo luogo, sarebbe ora che si facesse una disamina accurata della categoria del “pentimento”, che viene spesso usata a sproposito nel dibattito penale italiano. Nei paesi anglosassoni, per esempio, i collaboratori di giustizia vengono definiti supegrasses (origine incerta) oppure, più comunemente, turncoats, ovvero voltagabbana, a sottolineare il carattere strumentale della loro collaborazione. In Italia la subcultura cattolica elude quest’ultimo aspetto, introducendo un elemento di ipocrisia che fa leva su una sorta di ricatto morale. Chi si pente, se si deve lavare la coscienza, deve denunciare tutti, anche quelli con cui magari ha una vaga affinità elettiva ma che non sono stati lontanamente coinvolti nelle sue vicende. In questo modo i collaboratori di giustizia possono avere la possibilità di accrescere i loro vantaggi facendo leva su di un principio quantitativo, ovvero tirando in causa un numero di persone che sia il più elevato possibile, e magari riducendo le loro responsabilità. In cambio i magistrati portano a casa le maxi retate che mettono in evidenza il loro zelo o permette di accentuare l’impronta repressiva dei loro intervento. E’ stato così nel caso della lotta armata, coi pentiti pronti a chiamate di correo nei confronti di persone che militavano nella loro area ma che non erano direttamente responsabili. E’ stato così che si sono prodotti mostri giuridici come il 7 aprile e condanne ingiuste. Episodi simili, in alcuni casi, si sono verificati anche nella lotta alla criminalità organizzata. La strumentalità del pentimento, ai fini della lotta alle organizzazioni criminali, fa il paio con le misure vessatorie come il 41 bis. Da anni si sostiene che senza la compressione dei diritti dei detenuti, censurata dalle corti internazionali, non sarebbe possibile intraprendere la lotta alle mafie. Se guardiamo bene il contesto attuale, ci rendiamo conto che l’equazione tra repressione ed efficacia è lungi dell’essere effettiva. Se è vero che i principali boss di Cosa Nostra dell’epoca delle stragi sono stati catturati, dall’altro lato nutriamo qualche dubbio sul fatto che la criminalità organizzata siciliana, per quanto indebolita, abbia cessato di essere pericolosa. Gli stessi strenui difensori del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, indicano nelle camorre campane e nelle ‘ndrine calabresi le organizzazioni criminali più pericolose del momento, oltre alla Sacra Corona, ai Basilischi, alla Quinta Mafia, alle mafie di origine straniera, e a tutto quello che può essere attinto dal bagaglio della mafiologia pop. Se anche per queste organizzazioni vigono l’ergastolo ostativo e il 41 bis, o questi provvedimenti sono inefficaci, oppure le organizzazioni criminali costituiscono un pericolo meno grave di quello che si sostiene. Oppure, terza ipotesi, si insiste sul connubio mafie-repressione per spiccare nella ribalta pubblica. In terzo luogo, si tirano in ballo i parenti delle vittime. Anche in questo caso la categoria in questione va esplorata fino in fondo. Se è vero che alcuni familiari esprimono una netta contrarietà all’abolizione del carcere duro, altri esprimono una posizione opposta. Anche perché la giustizia non si amministra in nome delle famiglie, bensì in nome della legge. Di conseguenza, esiste una norma, come l’articolo 27 della nostra Costituzione, che prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, e l’ergastolo ostativo si pone trasversalmente a questa misura, fornendo una ragione ulteriore per sperare che la Consulta si pronunci in favore della sua abolizione. In quarto luogo, sarebbe necessaria una maggiore accuratezza da parte degli organi di informazione. Tra i condannati per associazione per delinquere di stampo mafioso non figurano soltanto dei calibri come Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma anche altri detenuti che sono pronti a fare i conti, scegliendo un percorso proprio, col loro passato, e che negli anni modificano il loro punto di vista rispetto alla realtà. Negare loro una seconda possibilità, oltre a violare la Costituzione, costituisce la cifra di una società ripiegata su se stessa, incapace di formulare prognosi positive sul proprio futuro. Un ex-mafioso che si reinserisce in società, infatti, è una risorsa, oltre che un individuo che ha fruito dei propri diritti, nonché la prova dell’efficacia dei dettami costituzionali. Molti detenuti condannati a pene definitive hanno intrapreso un percorso di studi e di trattamento, attraverso il quale hanno potuto elaborare il loro passato. Ma di loro, gli alfieri dell’ergastolo ostativo e del 41 bis, non parlano mai. Infine, se gettiamo uno sguardo negli ordinamenti giudiziari degli altri paesi, notiamo che non esiste, a parte in Italia e in Spagna, una condanna a vita. Nel Regno Unito un detenuto può essere rinchiuso in galera During Her Majesty’s Pleasure, ovvero finché vuole sua maestà. E’ una formula indeterminata, che però non esclude per i detenuti di fare domanda, ogni 10 anni, per il rilascio condizionale. Un meccanismo simile esiste negli Usa, dove, seppure si può essere condannati a centinaia di anni di galera, ogni 10 anni si può avviare un iter simile a quello britannico, anche se, nei casi anglosassoni, conta il parere de familiari delle vittime. Ad esempio, è dal 1990 che Mark Chapman, l’omicida di John Lennon, inoltra domanda in tal senso. Il parere favorevole di educatori e direzione del carcere, però, sbatte sullo scoglio di Yoko Ono, che ha sempre negato il suo assenso. Le mafie non si combattono inasprendo le misure penali, ma prosciugando il contesto sociale, economico e politico all’interno del quale prosperano. Per esempio, riguardo alle droghe, chiedendosi se non sia il caso di riconsiderare radicalmente le politiche proibizioniste. Oppure ponendosi il problema di quanto le mafie non aiutino a contenere il costo del lavoro e della sicurezza ambientale organizzando il caporalato, o smaltendo i rifiuti tossici per conto dell’imprenditoria del Nord. Ovviamente, un altro aspetto sarebbe quello di rilanciare il Mezzogiorno attraverso politiche pubbliche imperniate sulla tutela dell’ambiente, sulla mobilità dolce, e sulle tecnologie. Ma temiamo di stare parlando al vento. In fondo Gomorra è diventata una fiction televisiva popolare, e le foto di Falcone e Borsellino vengono impropriamente ostentate come un passepartout da chi vuole farsi strada nel dibattito pubblico. Speriamo che almeno la Consulta ci dia ragione. Associazione Yairaiha onlus