«Intercettiamone uno, intimidiamo tutti gli altri». La Camera penale di Roma non ci va leggera. Perché quello che riguarda Pier Giorgio Manca, avvocato 75enne del foro capitolino, indagato dalla Procura di Roma con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti, non è un caso isolato. Il tema è delicato: l’abitudine delle procure di intercettare gli avvocati nelle conversazioni con i propri assistiti. Una violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che dispone che i colloqui tra difensore e indagato non solo non siano utilizzabili, ma non possano nemmeno essere intercettati. Il quinto comma dell’articolo, infatti, stabilisce che «non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite». Il colloquio tra difensore e assistito, dunque, è inviolabile, in quanto mezzo essenziale ai fini dell’attività difensiva, che non può subire alcun tipo di controllo esterno. Se tale libertà non venisse garantita, il rapporto difensivo risulterebbe compromesso, così come il contraddittorio. Un principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il diritto alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e assistito rientra tra le «esigenze elementari del processo equo in una società democratica». Ma troppo spesso tale regola viene bypassata. E nonostante gli esposti al Csm e alla procura generale della Corte di Cassazione, di cui la stessa Camera penale capitolina si è fatta promotrice, nessuna sembra fornire risposte. Il caso Manca riguarda un’inchiesta relativa ad un traffico di droga proveniente dalla Colombia, gestito da un’organizzazione di tredici persone, ai cui vertici ci sarebbero tre militari e il penalista romano, accusato di aver consentito la circolazione d’informazioni tra i componenti dell’organizzazione criminale e di aver fornito assistenza morale e materiale ai detenuti del clan. Ciò sulla base di due anni di intercettazioni video e audio all’interno del suo studio legale e sul suo cellulare. Un modus operandi che ha spinto la Camera penale «a esprimere sdegno e preoccupazione», in quanto mina alla base «il ruolo fondamentale che la Costituzione assegna al difensore nel quadro degli equilibri processuali insiti nel concetto di giusto processo e di Stato di diritto». La questione è delicata. Per i giustizialisti, la “pretesa” garantita dalla legge - di sfuggire ai sistemi di intercettazione significherebbe aspirare all’impunità. Ma la realtà è che le strategie difensive, a tutela del contraddittorio, principio sacrosanto del giusto processo, non dovrebbero essere violate. «Lo studio di un avvocato è luogo dove ogni giorno decine di clienti elaborano strategie difensive e scambiano con il proprio difensore notizie coperte da segreto professionale che la legge protegge da ogni tipo di intromissione o di interferenza indebita», afferma la Camera penale. Che proprio recentemente, a seguito delle intercettazioni a carico dell’avvocata Roberta Boccadamo, difensore di Giovanni Castellucci, coinvolto nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi a Genova, ha presentato un esposto al Csm e alla procura generale della Corte di Cassazione per denunciare la violazione della norma che tutela la segretezza del conversazioni tra difensore e indagato. «Riteniamo che sia giunto il momento di una forte presa di posizione dell'avvocatura, che non può vedere violato un luogo che deve invece rimanere inviolabile a garanzia di tutti e a fronte del necessario e corretto bilanciamento degli interessi in gioco», continua la Camera penale, ribadendo la centralità del ruolo del difensore nel processo «e l'esigenza che esso venga garantito in tutte le sue espressioni, contro ogni forma di indebita compressione». Una posizione per la quale chiama in causa anche la magistratura, riservando ulteriori iniziative a tutela delle garanzie difensive. «Non vogliamo entrare nel merito della vicenda giudiziaria - spiega al Dubbio Vincenzo Comi, presidente della Camera penale -, ma prendere posizione su una pratica che va assolutamente stigmatizzata. L’esercizio del diritto di difesa, seppure con i limiti previsti dalla normativa vigente, deve essere pienamente consentito nell’interesse degli avvocati, ma principalmente nell’interesse dei cittadini che sono coinvolti in un processo». Secondo Comi, eventi del genere rischiano di intimidire l’azione degli avvocati, soprattutto dei più giovani. «La nostra presa di posizione non è a favore di un singolo caso sottolinea -, ma a difesa della funzione. Se queste sono le premesse, sono evidenti le difficoltà ad esercitare il nostro ruolo con la schiena dritta. La nostra è una professione difficile, il diritto alla difesa deve essere sempre garantito». Gli esposti della Camera penale, al momento, non hanno ricevuto risposta. Ma i penalisti romani continuano a sollecitare una verifica, con una vera e propria presa di posizione politica per rivendicare il diritto alla difesa.