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ingiusta detenzione
È un ossimoro in Italia parlare di diritti, di esecuzione penale, dell’istituzione penitenziaria anche come struttura fisica rispettosa del dettato costituzionale. Inutile dire che il fin troppo citato art. 27 per i tre poteri delloStato e la pancia della opinione pubblica, quella a cui preferibilmente risponde la politica, rappresenti spesso solo un esercizio retorico. Infatti dopo tanti anni che aspettiamo una riforma sistemica del “servizio” giustizia che riguardi la concezione del carcere, del trattamento e delle sue caratteristiche edilizie, il principio tuttora vigente è il carcere come pena. Di fatto come pubblica vendetta “garantita” dallo Stato. Parente stretta di questa “delega”conferita alla giustizia, citando un qualcuno finalmente fuori dalla magistratura, è la tesi che l’innocente è solo un “colpevole che l’ha fatta franca”. Serve quindi ripensare il carcere e a maggior ragione la sua configurazione edilizia, specie di un singolo edificio o di singoli ambienti o del colore delle pareti se manca l’idea del “perché” della detenzione? Con queste pessimistiche premesse, per effetto della ragione che osserva la realtà e talune distopie architettoniche, sarebbe ingenuo parlare di diritti dei ristretti. Ma l’ottimismo della volontà è assistito dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Cedu sostiene a non arrendersi al nichilismo che vede, nella “disfunzionalità” dello Stato nei ristretti diritti, l’appalesarsi di un sottile disegno servo di logiche invisibili, ambigue e non sempre facilmente comprovabili. Nelle carceri c’è grave sofferenza e spesso si riscontrano violenze nei confronti di detenuti. Ancora notizie di arresti domiciliari di agenti della polizia penitenziaria che avrebbero duramente picchiato un detenuto. Nel Paese di Beccaria, constatiamo inefficienza, indifferenza, superficialità da parte della politica che nonostante abbia il potere di cambiare, per migliorare lo status quo, nulla compie. Permangono discutibili soluzioni assunte dal Dap che, a seguito della condanna “pilota” del 2013 della Cedu, con fantasia tutta italiana ha adottato la “vigilanza dinamica”. Una finzione tutta burocratica che al mattino apre le porte delle celle per spostare tutti i detenuti in corridoio. Quanto poi avvenga in quella corsia o all’interno delle “camere” non è direttamente osservabile in regime di vigilanza dinamica perché i poliziotti sono posizionati al di là della cancellata. Questa scelta è stata fatta, oltre che per la carenza di personale, principalmente allo scopo di dimostrare alla Cedu che lo spazio a disposizione del detenuti va calco-lato tenendo conto anche delle superfici degli anditi e dei corridoi. Forse anche dalle scale? Sulla carta e in teoria questa soluzione lascia i detenuti liberi di circolare in ambienti più vasti, per occupazioni ricreative volte alla formazione. Ma nella maggioranza delle carceri lo spazio fuori dalla cella è solo un corridoio da percorrere più volte al giorno nelle due direzioni. Il camminare su e giù per ore e per anni in quello spazio è a tutti gli effetti una condizione alienante. Giustamente la Cedu considerava lo spazio minimo vitale non solo in base ai metri quadrati ma entrava nel merito anche delle genera-li condizioni di vivibilità per i detenuti. Le tendenze straniere più avanzate per il recupero dei detenuti sono oggi più orientate verso una concezione proattiva dell’esperienza carceraria, lunga o breve che sia. Sono concepite non solo come momento correzionale restrittivo e securitario, da subire esclusivamente come strumento di limitazione spazio-tempora-le, qualificandosi invece come“occasione” di ristrutturazione del comportamento deviato. Una legislazione più aggiornata, dovrebbe prevedere congrue misure deflattive per l’affollamento negli istituti utilizzando criteri di depenalizzazione dei reati minori, immaginando forme alternative di remunerazione sociale. Carceri o penitenziari, istituti correzionali specializzati, case lavoro, centri di recupero comportamentale, aziende agricole soprattutto per i giovani, sono vari i modi per definire quelle strutture di servizio da destinare alla gestione (quasi) totale della vita delle persone condannate, a tutto vantaggio della società libera per evitare recidiva e radicalizzazione. Basato sulla gestione intelligente di progressive gratificazioni capaci di “negoziare” caso per caso la ricompensa in base alla logica premiale, fondando il metodo su metodologie sistemi che con riscontri effettivi concernenti la verifica puntuale della condotta del detenuto. Il criterio dovrebbe sempre essere orientato verso la preparazione al futuro stato di libertà, al reinserimento del detenuto, prevenendo, nell’interesse del corpo sociale, il grave fenomeno della recidiva. Rimandiamo tutto questo alla prossima Italia.