Mario Draghi dovrà fare un miracolo di sintesi. Ma uno sforzo notevole toccherà pure al Pd. Costretto a isolare, anche nel futuro governo, le esuberanze renziane, ma anche obbligato a distinguersi dagli alleati, quindi dal Movimento 5 Stelle. Sfida improba. Anche e soprattutto sulla giustizia.

Ma dal colloquio di ieri pomeriggio con il premier incaricato, i dem escono con un carta a sorpresa, o sottovalutata: la riforma del carcere. Cioè il progetto che l’attuale vicesegretario pd Andrea Orlando lasciò in rampa di lancio alla fine della scorsa legislatura, senza ordinare mai il definitivo via libera. E che poi il suo successore al ministero della Giustizia, Alfonso Bonafede, mise sotto chiave, almeno nella parte decisiva: l’addio alle preclusioni nella concessione dei benefici penitenziari.

La consultazione di ieri riapre la partita. Lo chiarisce anche Nicola Zingaretti in un post su facebook: fra le priorità indicate all’ex governatore di Bce e Banca d’Italia ci sono anche «l’amministrazione della giustizia con maggiore velocità» e l’attenzione al «rispetto della vita nelle carceri». Al Dubbio, una fonte del Nazareno spiega: «Alla riforma del carcere teniamo molto. Anche perché, certo, porta la firma di Orlando. È un principio di dignità, che va insieme con la lotta alle mafie, e che deve essere distintivo di una Stato forte». È anche una sfida al Movimento 5 Stelle: questo Il Pd non lo lascia neppure lontanamente trapelare.

Eppure il senso è anche questo. Sulla giustizia, il Nazareno trova una propria autonomia dall’alleato. E lo fa su una questione che Bonafede ha volutamente tenuto da parte durante il proprio mandato. La scelta è necessaria. Anche tenuto conto che sulla prescrizione, invece, l’atteggiamento dei democratici continuerà a essere “conservativo” rispetto all’intesa coi pentastellati: nessuno strappo immediato, dunque nessun via libera al lodo Annibali e agli altri emendamenti, già depositati alla Camera, che puntano a congelare o addirittura ad abrogare il blocca- prescrizione di Bonafede. Scelta che probabilmente impedirà, nell’immediato un voto in aula sui siluri confezionati da Italia viva e centrodestra, ma che costerà, al Pd, l’accusa di restare schiacciato sulla linea giustizialista dei grillini.

Anche in quest’ottica, il partito di Zingaretti decide di riprendere invece un dossier come la riforma del carcere, sul quale la posizione dei cinquestelle diverge. Dal Nazareno ricordano d’altronde che l’altra priorità, nella giustizia, riguarda inevitabilmente la riforma del processo, anche del processo penale: «I due ddl all’esame del Parlamento, sul penale alla Camera e sul civile al Senato, sono decisivi. In un governo Draghi l’agenda non ha una gerarchia, ma un titolo secco: Recovery plan. E senza processi più veloci, i fondi del Recovery non arriveranno neppure».

Ma qual è il nome giusto per gestire il dossier giustizia? La fonte dem su questo è categorica: «Adesso non c’è un nome. Noi a Draghi non ne abbiamo fatti. Va prima chiarito il quadro delle forze in campo, la composizione dell’inedita alleanza di governo. Quello è il punto di caduta. I nomi vengono dopo». E un tecnico, una figura di alto profilo ma estranea ai partiti, può aiutare a fare sintesi sulla giustizia? «Cambia poco se a via Arenula c’è un tecnico. Prima di tutto ci si deve chiarire le idee sugli obiettivi, riguardo a tutto e anche sulla giustizia. Vediamo chi si siederà al tavolo della maggioranza. Poi capiremo, in base alla sintesi possibile, qual è il miglior ministro della Giustizia. Ma è meglio dirlo di nuovo: se arriva il tecnico più neutrale del mondo e non c’è una sintesi chiara sul progetto politico, siamo sempre al punto di partenza».

Quindi: il guardasigilli, per il Pd, non deve essere per forza una figura esterna alla politica. Vuol dire che, in fondo, il nome giusto è proprio quello di Andrea Orlando? Secondo quanto filtra da più parti, il vicesegretario dem non avrebbe affatto l’ambizione di tornare lì da dove se n’era andato tre anni fa, cioè a via Arenula. Anche se, viene chiarito, «un conto è non essere interessati a fare il ministro della Giustizia, altro è dire che in proposito il vicesegretario del Pd ha una preclusione così netta da poter eventualmente respingere una richiesta altrui». Cioè di Mario Draghi.

Ultima considerazione: la “terza via sulla giustizia”, trovata ieri da Zingaretti e dalla delegazione dem nelle consultazioni col premier incaricato, può essere letta in due modi diversi, rispetto al nome tuttora più gettonato per via Arenula, vale a dire Marta Cartabia. Da una parte il Nazareno chiarisce di non considerare la scelta di un «tecnico estraneo ai partiti» risolutiva. Dall’altra però la richiesta avanzata a Draghi sul carcere è tutt’altro che incompatibile con una nomina a guardasigilli della presidente emerita della Consulta. Cartabia ha appena firmato un libro con Adolfo Ceretti, “Un’altra storia inizia qui”, ritorno all’esperienza delle visite in carcere di Carlo Maria Martini. Un testo in cui il principio base è quello che la Corte costituzionale ha affermato con la sentenza sui permessi per i detenuti “ostativi” a fine 2019: il diritto alla speranza, al futuro, deve essere assicurato a qualsiasi recluso. Una posizione del genere farebbe di Cartabia anche una straordinaria interprete della svolta sollecitata dal Pd sulla riforma penitenziaria. Ecco perché la partita sulla giustizia, anche sul futuro ministro, resta apertissima. Anche se ieri i democratici hanno disegnato un po’ meglio le linee del campo di gioco.