«Da una parte il governo che introduce di continuo regole con strumenti impropri come i dpcm. Dall’altra la magistratura che a volte altera le regole del processo e, nell’ultimo libro, sembra concedersi abusi impensabili». In un quadro già allarmante di crisi della legge, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta, inserisce l’incertezza creata dalla pronuncia costituzionale sulla prescrizione causa covid: «Avrei preferito fosse ribadito il principio di irretroattività della legge penale».

Cosa è cambiato rispetto al libro?

«Perché me lo chiede?».

Perché, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, nel suo ultimo saggio, “Giustizia in crisi ( salvo intese)”, lei si era affidato a una prospettiva di pacificazione. Da una parte la politica che smette di usare la giustizia come arma nei conflitti interni, dall’altra la magistratura che dismette l’abitudine di farsi interprete della legge in modo così esuberante da renderla imprevedibile.

«Ecco, infatti, ma non è intervenuto, nel frattempo, alcun revisionismo, per parte mia».

Eppure lei adesso parla di una crisi della giustizia così evidente da chiamare in causa la sentenza della Consulta sulla “prescrizione covid”, e rischi più generali per un principio sommo dell’ordinamento in materia penale, il principio di legalità.

«Il tono forse è cambiato. Non il mio auspicio. Il tono può risentire del libro appena pubblicato sulla magistratura».

Il “Sistema” di Palamara?

«Sì. Vedere fino a che punto la perdita di ossequio verso le regole può arrivare mette davanti agli occhi le macerie. E non è una bella sensazione. Se i fatti descritti in quel libro riguardassero altri consessi, si sarebbero immediatamente aperti procedimenti penali. L’appartenenza alla corporazione, se così la si vuol chiamare, suggerisce la sgradevolissima idea di poter assicurare un trattamento diverso. E non è una bella sensazione. È un altro colpo alla stabilità del sistema delle regole».

Flick accetta l’intervista a una condizione: non si deve palare di crisi di governo. Chiede che non gli siano rivolte domande sull’esito delle discussioni fra alleati ed ex alleati, financo sulla lite attorno alla famigerata prescrizione, pietra dello scandalo politico. «Ho rifiutato alcune proposte di intervista sulla crisi da parte di testate autorevoli. Mi è dispiaciuto declinare, ma non potevo far altro. Io non voglio parlare di cose sulle quali non credo di poter fare previsioni interessanti. Oltretutto non ho la sfera di cristallo e non vorrei contribuire agli equivoci. Voglio però parlare», aggiunge Flick, «di crisi della legge e della giustizia. Mi pare un problema urgente da risolvere. Altrimenti la giustizia sarà la terra dell’incognito, dell’incertezza. E dunque della contraddizione più stridente di tutte, per il diritto. Che invece richiede una ragionevole prevedibilità dell’esito e una ragionevole durata del processo».

Cominciamo da un tema che incidentalmente è anche materia di “scandalo” per la politica: la prescrizione. Lei ne parla oggi a un webinar organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, in particolare a proposito di “Garanzia dell’irretroattività nella nuova dimensione della legalità penale”. Intanto, molti italiani trovano giusto che si sia abolita la prescrizione: forse perché un’idea “premoderna” di giustizia è ritenuta tutt’oggi necessaria?

C’è l’idea che la prescrizione sia il meccanismo favorevole ai furbi e ai ricchi, che con sofismi e ottimi avvocati posso sfuggire a una giusta condanna. C’è in realtà qualcosa di astuto da parte dello Stato, dietro una storia del genere.

A cosa si riferisce?

Al fatto che la prescrizione è diventata il manto sotto cui si occultano le inefficienze del sistema giudiziario. Dietro cui cioè lo Stato cela le proprie inadeguatezze organizzative e strutturali. Dire che la prescrizione favorisce i furbi, accreditare una simile lettura, nasconde per esempio il fenomeno per cui la maggior parte dei reati che si estinguono, viene dichiarata prescritta o durante le indagini oppure a causa di quella sorta di buco nero della macchina processuale costituito dal passaggio fra l’udienza preliminare e l’inizio del dibattimento. Mi sembra un modo equivoco e manipolativo di occultare un principio costituzionale: il principio della durata ragionevole del processo, più precisamente il principio secondo cui la durata ragionevole è un dovere il cui adempimento compete allo Stato, non all’imputato. Come risulta dalla diversa formulazione dell’articolo 111 della Costituzione rispetto all’articolo 6 della Cedu.

Perché, qualcuno pensa il contrario?

Sì, nel momento in cui si insinua che la prescrizione arriva per colpa dell’imputato, anzi del difensore astuto e bravo che ricorre a tutti i possibili trucchi per favorire l’estinzione del reato, si sostiene in modo implicito che l’imputato deve concorrere ad assicurare la ragionevole durata. No, non è affatto così. Nel diritto penale così com’è inteso da alcuni secoli, l’imputato non è neppure tenuto a dichiararsi colpevole. Se pure è colpevole, non è tenuto ad autoaccusarsi. Figurarsi se deve rinunciare a qualche garanzia pur di favorire la celerità dell’accertamento. Non è affatto vero. Il solo vincolo per l’imputato consiste nell’avvalersi delle previste garanzie all’interno del processo, senza fuggire grazie ad esse dal processo. Ma di più non si può pretendere. L’efficienza è un dovere in capo allo Stato. Ecco perché dire che la prescrizione è il riparo dei furbi è un doppio rovesciamento della verità.

La distorsione dei principi si realizza anche per l’inconsapevole tramite di alcuni magistrati? Ad esempio quando si trasferisce di fatto il processo dalla sua sede naturale ai media?

Si tratta di un problema diverso da quello della prescrizione. In comune c’è l’impressione che alcune regole, anche in questo caso, siano in effetti disconosciute. Nello specifico, la regola vuole che la pubblicità ci sia quando si è nella fase del dibattimento. Nelle indagini devono esserci segretezza e riserbo. Avviene il contrario. C’è un clamore mediatico enorme attorno alle indagini, trascinate verso l’orizzonte dell’aspettativa popolare, che vìola la regola della segretezza e può influenzare il giudice.

Lei prima ha detto che si scarica ogni responsabilità sull’imputato: avviene perché lo si considera colpevole già per il fatto di essere accusato?

Ci sono evidentemente approcci distorsivi, non solo sulla prescrizione. Se ne registra uno molto grave a proposito delle intercettazioni. Vale a dire del trojan. Le pare possibile ricorrere a uno strumento investigativo che ti segue ovunque e raccoglie tutto quello che trova? Mi sembra si vada nella direzione di voler indurre l’indagato a un’inconsapevole confessione. Si stravolge l’equilibrio che la Costituzione pone tra l’articolo 15 ( privacy) e l’articolo 21 ( comunicazione a tutti).

Una tendenza ellittica nell’interpretazione delle norme potrebbe aver condizionato persino la Corte costituzionale sul blocco della prescrizione causa covid, la cui retroattività è stata giudicata legittima?

In realtà io sono stato colpito soprattutto da una cosa, ferma restando la possibilità di alternative tecniche nell’interpretazione della norma. Mi ha sorpreso il contrasto fra l’enfasi con cui la Corte aveva ribadito il carattere inderogabile del principio di irretroattività delle leggi penali in malam partem, in occasione della sentenza Taricco, e la pronuncia emessa appena due anni dopo sul blocco della prescrizione legato alla sospensione dei processi per la pandemia. La Consulta ha derogato dalla linea precedente, e ha detto che la prescrizione può essere sospesa anche per un fatto verificatosi prima dell’entrata in vigore della legge che introduce la specifica causa di sospensione del processo.

Come ha potuto?

Ha ritenuto che l’articolo 159 del codice penale, in cui si stabilisce che la prescrizione è sospesa quando il processo si interrompe e tutte le volte in cui una legge introduce un particolare motivo di sospensione del processo, sia da intendersi nel senso che il motivo specifico introdotto da una nuova legge valga pure per il passato. In parole semplici, ha “spacchettato” l’articolo 159 nella previsione generica della sospensione e nel richiamo alla “particolare disposizione di legge” che la impone.

In tal modo si concede un potere molto ampio allo Stato, giusto? Quando ritiene, introduce una nuova causa speciale di sospensione: gli basta mettersi sotto l’ombrello dell’articolo 159.

La Corte ha chiamato in causa, con motivazioni molto diffuse, il principio di emergenza e quello di ragionevolezza, ricollegati per esempio alla brevità del periodo in cui, nella primavera dell’anno scorso, i processi furono sospesi, e alla eccezionalità della pandemia. Ma io avrei preferito che fosse preservata anche l’integrità di un principio cardine, soprattutto in un periodo in cui le incertezze non mancano.

La sentenza sulla prescrizione covid è il sintomo di una giustizia senza certezze?

La sentenza ci fa vedere con chiarezza quanto pesante sia un quadro in cui le certezze vengono a mancare e richiede un urgente confronto risolutivo fra politica e magistratura. Al nostro sistema dei diritti serve riconoscersi attorno a principi cardine. Altrimenti prevalgono la delegittimazione del Parlamento, il sovrapporsi multilevel delle fonti, la confusione. Tutto è incerto e la giustizia sembra vacillare. E ciò in contrasto con la precisione del principio costituzionale di legalità ( articolo 25) che si esprime in termini di “una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, non di un fenomeno.

E siamo alla domanda: è diventato pessimista a soli tre mesi dall’uscita di un libro in cui sembrava fiducioso?

Io continuo a credere che l’albero della giustizia debba assicurare due frutti: la ragionevole durata del processo e la ragionevole prevedibilità dei suoi esiti. Dicono si tratti di requisiti necessari per ottenere i fondi del Recovery. No: sono innanzitutto i requisiti necessari per una civiltà del diritto. Servono ai cittadini, alle persone, prima che all’Europa o agli investitori.

Quindi siamo messi male?

Ora vedo al capezzale della legislazione, che rischia di morire, da un capo la politica, che fa venir meno la certezza della legge nel momento in cui introduce troppe norme attraverso strumenti discutibili. Trovo di straordinaria verità le parole pronunciate dal primo presidente della Cassazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario riguardo al timore che l’irrompere tumultuoso delle leggi confonda più che risolvere. Pare chiarissimo nel caso dei dpcm. Dall’altro capo del letto su cui giace la legislazione rischia di trovarsi il giudice, sempre più tentato dalla creatività interpretativa anziché dalla interpretazione creatrice. Da ciò la contesa fra politica e giustizia sulla spartizione dell’eredità della legislazione.

Definire il quadro allarmante è un eufemismo.

La piramide del diritto vede al vertice i principi, ossia la Costituzione. Quindi ci sono le regole che attuano quei principi, dunque il legislatore che fissa quelle regole. Nella parte inferiore, il governo che attua le regole, e coloro che esercitano la funzione di controllo, ossia i magistrati. Mi pare che la confusione abbia allontanato ogni certezza sui principi.

Il suo discorso pare meno aperto alla fiducia in uno sviluppo positivo.

Senta, lo spettacolo offerto da un libro come quello sulla magistratura appena uscito suggerisce il timore che l’uso un po’ arbitrario delle regole sia andato fuori controllo, in un contesto di autoreferenzialità. Eppure continuo a credere e a sperare che si smetterà di seguire questa strada, abbastanza presto da evitare che i capisaldi dello Stato di diritto vengano corrosi del tutto. Perché prima o dopo ci auguriamo che la pandemia finisca, mentre l’equilibrio fra i poteri e la funzione della giustizia dovranno continuare a esistere.