Michele Ainis, giurista e professore di Istituzioni di diritto pubblico a Roma Tre, è schietto nel dire che «il nuovo contratto di governo rischia di servire solo a giustificare un rinnovato amore tra coniugi che erano sull’orlo del divorzio».

Professor Ainis, in queste ore si torna a parlare di “contratto di governo”, dopo l’ormai celebre accordo tra Lega e M5S nel primo governo Conte. Di cosa si tratta?

Il contratto è uno strumento privatistico con cui cittadini o imprese regolano i loro rapporti d’affari. Qui siamo invece nel campo del diritto pubblico e occorre affrontare diversamente la questione. Certo sappiamo tutti che esistono esperienze importanti: tutti ricordano la Germania e il contratto che ha preceduto la “grosse koalition”, ma su questa vicenda qualche dubbio ce l’ho.

Ad esempio?

I tedeschi per redigere quel contratto ci hanno messo tre mesi di lavoro avvalendosi dell’ausilio di un centinaio di esperti, mentre qui si tratterebbe di farlo in quattro e quattr’otto. Il rischio è che si scrivano dei titoli generali e generici di capitoli che poi ciascuno legge coi propri occhiali e che quindi il contratto funzioni piuttosto da alibi davanti agli elettori per giustificare un rinnovato amore tra coniugi che erano sull’orlo del divorzio.

Un altro dubbio?

Ammesso che sia trasponibile l’esperienza del contratto privato nel governo della cosa pubblica, allora quel contratto deve essere specifico, individuare dei punti e svolgerli, portandoli a conclusione in modo preciso. Se è generico può essere invece la miccia che innesca future liti.

Il Recovery Plan può essere un tema specifico sul quale raggiungere un accordo tramite il contratto?

Il piano di ripresa è in gestazione da mesi e se si riesce a definirlo con un’accelerazione in 48 ore staremmo tutti qui ad applaudire, ma ne dubito. C’è piuttosto un altro punto che a me sembra critico.

Prego.

La Costituzione detta una norma laconica, come spesso accade nella Carta: il Presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri. In primo luogo, quindi, la scelta dei ministri spetta al presidente del Consiglio incaricato e al Capo dello Stato che deve avallarla. In questi giorni degli attori privati come Confindustria o gli stessi commensali che siedono intorno al tavolo stanno ragionando sul nome dei ministri e questo significa espropriare le competenze di palazzo Chigi e del Colle.

Ma non è normale che, oltre ai temi, in una riunione per gettare le basi del futuro governo si parli anche dei nomi che poi devono portare avanti quelle idee?

Il fatto che oggetto della trattativa siano i futuri dicasteri qualche problema lo crea. È sempre avvenuto, è vero, ma soltanto in parte, mentre qui il rischio è che il contratto sia generico nei contenuti ma molto dettagliato sui nomi.

Cosa pensa del fatto che al tavolo della trattative non sia seduto quello che dovrebbe esse il futuro presidente del Consiglio di questo governo, ovvero Giuseppe Conte?

Che il presidente del Consiglio dimissionario non ci sia è giusto. Il mandato esplorativo è un secondo giro di consultazioni per interposta persona, in questo caso il presidente della Camera, Roberto Fico, ma siamo sempre nella fase che precede l’incarico. Le consultazioni servono a capire quale sia il personaggio che può cogliere la maggioranza, il quale diventa una sorta di convitato di pietra. Non vedo sgrammaticature costituzionali sul fatto che si lavori su un’ipotesi di maggioranza che grosso modo sarà quella di prima, e cioè che i partiti ragionino su un embrione di programma.

Dunque crede che Conte possa entrare in gioco soltanto a “conti fatti”?

Beh, sarà il presidente del Consiglio che dovrà presentare il proprio programma di governo alle Camere. Di conseguenza o il contratto è generico, e non serve a nulla, o è specifico e allora il presidente del Consiglio dovrà attenersi a quello che dice il contratto. In questo caso palazzo Chigi diventa mero megafono di volontà altrui quando invece dovrebbe essere primus inter pares, come dimostra il fatto che bastano le dimissioni del presidente del Consiglio perché un governo cada, mentre non accade con le dimissioni di un qualsiasi ministro.

In sostanza è quello che è accaduto nel primo governo Conte e in parte nel secondo. È corretto?

Nel primo governo Conte la sua forza era la sua debolezza, perché era sovrastato da due vicepresidenti del Consiglio leader di partito; nel secondo governo Conte la sua debolezza è stata la sua forza, perché con i dpcm e la sua crescita di popolarità è diventato un po’ ingombrante e allora i partiti lo hanno sgambettato. In politica, come nella vita, è sempre importante trovare una via di mezzo. Anche se in entrambi i casi è assai difficile.

Dovesse nascere un Conte ter, magari fino al 2023, crede che il presidente del Consiglio possa acquisire una forza politica tale da presentarsi alle elezioni magari con un suo partito?

Credo che una forza politica Conte l’abbia acquisita già oggi ed è documentata dai sondaggi. Se uscisse di scena e si votasse tra due anni questa forza si stempererebbe e diventerebbe un attore debole del gioco politico. Quando va bene abbiamo memoria dei fatti del giorno prima, mentre del mese passato nessuno si ricorda. La forza politica di Conte è qui e adesso e può anche darsi che ove non venisse sgambettato potrebbe convogliare un certo numero di dissidenti grillini tale da far mancare a un nuovo esecutivo i numeri e determinare così elezioni anticipate.

Come giudica la crisi in atto, dato il contesto?

Nella storia italiana è successo di tutto: nel 1849 Gioberti si dimise e venne fatto un nuovo governo con tutti i ministri di prima, cambiando solo il vertice. Una cosa analoga accadde dopo il referendum del 2016, quando dopo le dimissioni di Renzi arrivò Gentiloni ma molti ministri rimasero gli stessi. Abbiamo fin troppi precedenti di crisi di governo e, insomma, non c’è da meravigliarsi di quello che sta accadendo.