«L’America non è mai stata all'altezza della sua promessa fondamentale di uguaglianza per tutti, ma non abbiamo mai smesso di provarci. Oggi, agirò per promuovere l'equità razziale e spingerci più vicino a quell'unione più perfetta che abbiamo sempre cercato di essere».

Le parole pronunciate dal nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden martedì 26 gennaio prima di firmare alcuni importanti ordini esecutivi danno, almeno nelle intenzioni, un indirizzo preciso ai prossimi 4 anni della sua amministrazione.

Il presidente ordina al dipartimento di giustizia degli Stati Uniti di porre fine all'uso di carceri private, rafforzare l'applicazione della lotta alla discriminazione nel mercato immobiliare, sottolineare l'impegno del governo federale per la sovranità tribale dei nativi americani e condannare i pregiudizi anti- asiatici. Una direzione totalmente opposta rispetto all’operato del suo predecessore Donald Trump.

Il primo punto in particolare investe il mondo della giustizia e si pone contro quella che Biden, raccogliendo una critica proveniente dalla società americana, ha definito «l’incarcerazione di massa». Per il nuovo inquilino della Casa Bianca l’uso massivo del carcere «impone costi significativi … mentre le prigioni private approfittano dei detenuti federali mettendo sia i prigionieri che gli agenti penitenziari in condizioni meno sicure».

Quella che si profila dunque è una generale riforma della giustizia penale e della polizia che comprende misure come il divieto della pena di morte e la riduzione del trasferimento di attrezzature militari alle forze dell'ordine locali. Un dibattito scaturito dopo la morte di George Floyd a Minneapolis nella primavera del 2020 e dopo le massicce proteste di Black Lives Matter. Sebbene i progetti di un profondo cambiamento della polizia giacciono al Congresso ora sembra che verranno affrontati fattivamente. Ma è proprio il carcere e la sua progressiva privatizzazione ad occupare il centro della scena politica. Un modello da sempre esistente negli Usa ma che da 30 anni almeno ha visto una progressiva amplificazione.

Ad essa hanno contribuito in particolar modo le politiche di Trump sull’immigrazione e nei confronti dei reati per droga. Tanto da diventare un lucroso business da milioni di dollari per le società e gli investitori specializzati ai quali viene appaltato questo tipo di servizio. La privatizzazione carceraria ha avuto un’espansione a partire dagli anni ’ 80 come corollario della cosiddetta “war on drug”, fu Reagan infatti a firmare l’Anti- Drug Abuse Act che stabiliva pene detentive molto più punitive anche per crimini non violenti. La conseguenza fu di un aumento vertiginoso della popolazione carceraria costituita per la stragrande maggioranza da afroamericani. Anche i democratici con Bill Clinton non furono da meno visto che il Violent Crime Control and Law Enforcement Act si poneva nella stessa direzione.

I numeri parlano chiaro e danno il senso delle dimensioni reali, se nel 1980 i detenuti erano complessivamente 660mila, attualmente si è giunti a 2 milioni. Praticamente si può dire che un quarto della popolazione carceraria mondiale si trova negli Stati Uniti. I risultati di tutto ciò furono inevitabilmente il sovraffollamento e l’aumento dei costi di gestione dei penitenziari e dei servizi come quelli medico sanitari. La risposta dunque fu quella di affidare il fabbisogno ai privati.

Ecco dunque che si affacciarono compagnie come la CoreCivic, nel 1983, e poi la GEO Group della Florida, un colosso che lavora anche in altri paesi del mondo. Si tratta di sue corporation quotate in borsa che trascinano un indotto di almeno altri 3mila operatori. Dimensioni necessarie visto che si occupano anche di controllo elettronico dei detenuti, riabilitazione e del lavoro in carcere svolto dagli internati per 25 centesimi l’ora senza nessun diritto. Un business sicuro che può prosperare anche in momenti di crisi economica come quello provocato dalla pandemia di Covid- 19. L’unico, ma fondamentale rischio, è che queste società possano risentire di eventuali cambiamenti legislativi come quelli portati avanti da Biden. E’ già successo nel 2016 quando Obama volle mettere fine ai contratti di appalto e le quotazioni azionarie di CoreCivic e Geo Group precipitarono.

Situazione completamente ribaltata nel 2016 con Trump, grande sostenitore delle prigioni private e delle politiche di law and order. Grazie al lavoro di lobby delle “compagnie carcerarie” che spesero 5 milioni di dollari per la campagna elettorale del tycoon, i dividendi ricominciarono ad aumentare fino a raggiungere un fatturato da 4 miliardi di dollari. Attualmente il governo degli stati Uniti spende quasi 40 miliardi di dollari per finanziare le prigioni private che ospitano una popolazione di circa 130mila persone.

Intanto ha avuto un forte impulso un altro business, quello della costruzione di centri di detenzione per migranti soprattutto negli stati del sud. Sulla scorta delle politiche anti immigrazione di Trump è stato calcolato che il 72% delle persone intercettate al confine si stato portato in queste strutture. Inutile dire che CoreCivic e Geo Group si sono viste offrire nuovi e remunerativi contratti milionari non solo per l’edificazione e la gestione dei centri ma anche per attività di controllo delle frontiere.

Il problema maggiore però è che i privati hanno interesse a contenere i costi e così tagliano i servizi. Ecco dunque la somministrazione di cibo avariato, agenti non qualificati e malpagati, condizioni igienico sanitarie scadenti e poche risorse mediche. La situazione è stata descritta con precisione da Shane Bauer, il giornalista che ha scritto il libro “America prison” dopo essersi fatto assumere con facilità come agente penitenziario in un carcere della Lousiana per 4 mesi. La sua testimonianza parla di detenuti non portati in ospedali perché le spese sarebbero a carico delle società private e della mancanza quasi totale di programmi per la riabilitazione dei detenuti e servizi di supporto per l’assistenza psichiatrica.