Edmondo Bruti Liberati è stato in prima linea, al fronte decisivo delle tensioni fra magistratura e politica, a partire da metà anni Ottanta, sempre nella Procura di Milano, che ha guidato fino al 2015.

Da Tangentopoli, la politica ancora non è riuscita a emanciparsi dalle inchieste: indagano su Cesa e salta la trattativa per salvare il governo.

La netta distinzione tra responsabilità penale e responsabilità politica è un problema tuttora irrisolto nella società italiana. La mancata assunzione di un’autonoma valutazione e correlativa responsabilità da parte del sistema politico determina una sovraesposizione della magistratura, dannosa per la magistratura tanto quanto lo è per la politica.

È un aspetto su cui si riflette di rado.

Al di là di magistrati, e ve ne sono, che non disdegnano il protagonismo, quando addirittura non lo ricercano, è ormai diffuso nella cultura della magistratura il rigetto di una sovraesposizione non ricercata e non voluta. Il che non significa, ovviamente, ritrarsi dalla doverosa applicazione della legge. La magistratura non deve farsi carico di “compatibilità”, si tratti di provvedimenti che oggettivamente hanno rilevanza sulla politica, sull’economia, sulle opere pubbliche. L’unica compatibilità è quella della rigorosa applicazione della legge e di tutte le garanzie processuali.

L’opinione pubblica ha meno fiducia nei magistrati anche perché ha constatato che le inchieste non servono a migliorare la classe politica?

Due anni fa in un mio libro sulla storia recente della magistratura italiana citavo puntuali osservazioni del professor Massimo Donini: “Dove è il delitto a stabilire il lecito — ciò che delitto non è! — abbiamo una società già compromessa. La moralità quale costume politico ha valori propri, codici deontologici indipendenti, sanzioni autonome. Noi dobbiamo poter decidere che se un politico è assolto da un delitto molto infamante e immorale, non è per ciò solo ‘ moralmente a posto’: l’assoluzione penale non è una assoluzione morale. Nello stesso tempo, se un politico ( o un imprenditore o un quisque de populo) è condannato penalmente, dobbiamo avere criteri di etica pubblica per separare il giudizio penale da quello etico. Può essere che quella condanna non abbia valore morale, e non debba esigere le sue ‘ dimissioni’, così come non sono moralmente rappresentativi i giudici”. Ripropongo queste osservazioni per la loro perdurante attualità, nella duplice direzione. Qui si fa riferimento a condanne e dunque a sentenze definitive, ma altrettanto vale per la fase delle indagini. Fermo, per tutti, il rispetto della presunzione di innocenza, già dalla fase delle indagini possono emergere relazioni, circostanze, frequentazioni sulle quali, indipendentemente dalla eventuale qualificazione penale, la politica è chiamata ad una autonoma valutazione. La “selezione di una classe politica migliore” è compito della politica e della società civile.

Ma la politica usa le inchieste come una clava.

Il sistema politico tedesco nel 2000 ha mostrato la capacità di attivare la responsabilità politica indipendentemente e a prescindere dalla responsabilità penale, e proprio nei confronti di un “padre della patria”, quando sono emersi cospicui finanziamenti in nero ricevuti dall’ex cancelliere Kohl, l’artefice della riunificazione, al momento presidente onorario e padre nobile della Cdu. Il caso Kohl mostra la consapevolezza della gravità anche del finanziamento illecito “puro” dei partiti, che comporta la devastazione del sistema dei controlli e dell’etica professionale dei controllori. L’assunzione di responsabilità politica da parte della Cdu è stata premiata dai suoi elettori: dopo le dimissioni di Kohl da ogni carica, è iniziata la straordinaria carriera di Angela Merkel.

Parlare di giustzia a orologeria da parte della Procura di Catanzaro nel caso di Cesa non ha senso. Ma ci sono casi in cui il tempismo dei pm è “anomalo”?

Non vi è indagine penale che abbia riflessi sulla politica per la quale non si invochi la tesi della giustizia a orologeria. Con la variante di un orologio che è troppo avanti o troppo indietro rispetto alle innumerevoli, e in larga misura non prevedibili, scadenze della politica. L’unico orologio che la giustizia penale deve tenere in conto è quello della ragionevole durata del processo, non l’orologio delle compatibilità con le scadenze della politica, dell’economia o anche dello stato di avanzamento delle grandi opere. Le stucchevoli litanie sulle indagini a orologeria ignorano poi il carattere di relativa casualità sia dell’inizio dell’indagine penale che non deriva dall’esito di controlli sistematici preventivi, che non sono compito del pm, sia del momento delle acquisizioni di elementi di prova nel corso dell’indagine. È vero che pubblici ministeri talvolta a sproposito ricorrono alla categoria dell’ “atto dovuto” anche ove il “come” e il “quando” è oggetto di una valutazione discrezionale ineludibile. Ma se vi è un’ipotesi nella quale il pm non ha alcun margine per accelerare o ritardare è quello della esecuzione di provvedimenti emessi da gip.

Che è il caso dell’inchiesta di Catanzaro.

L’ articolo 92 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale dispone che l’ordinanza del gip sia trasmessa immediatamente al pm, il quale non ha alcun margine di apprezzamento sui tempi, se non quelli delle esigenze organizzative della polizia per la necessità di eseguire contestualmente misure nei confronti di più indagati e le collegate perquisizioni. Si fa finta spesso di ignorare, per le polemiche sulla orologeria del pm, che la sua richiesta del può essere anche di molto antecedente alla decisione del gip.

Marino, Bassolino, De Girolamo: sono solo alcuni dei casi recenti di politici assolti da accuse che ne hanno distrutto la carriera. Ci sono Procure che tendono a indagare politici con troppa disinvoltura?

I casi citati e il giusto clamore che hanno suscitato impongono una riflessione che sia fondata su una ricostruzione puntuale delle caratteristiche di ciascuno di essi. Rimane comunque, ed è un macigno, l’intollerabile lunghezza dei processi. Su una analisi oggettiva di questo tipo, a prescindere dalle persone, si dovrebbe aprire un confronto che faccia emergere dove vi siano state inammissibili leggerezze inquisitorie, ove il fisiologico svilupparsi del sistema delle impugnazioni, ove la corretta applicazione restrittiva della legge penale lasciasse margine residuo per una valutazione politica dei fatti accertati. Da un punto di vista generale riprendo quanto osservavo all’inizio sulla necessaria distinzione tra valutazione penale e valutazione politica. Vi sono state spesso critiche sull’applicazione del reato di abuso di ufficio, reato problematico: ma la magistratura non ha mancato di applicare un rigoroso self restraint.

In certi casi lo ha adottato, ma non sempre.

Il gip di Milano, accogliendo la richiesta del pm, il 23 marzo 2020 ha disposto l’archiviazione nei confronti del presidente della Lombardia Attilio Fontana per il reato di abuso di ufficio in relazione al conferimento di un incarico regionale a un avvocato suo amico ed ex socio di studio. Si è ritenuta la nomina, di carattere fiduciario, illegittima per violazione del principio di imparzialità, ma insussistente il reato per difetto dei requisiti dell’indebito vantaggio e del danno ingiusto.

Nell’intervista al Corriere, Gratteri ha quasi lanciato una sfida ai giudici che hanno bocciato sue ipotesi d’accusa: non è quanto meno irrituale?

I pubblici ministeri possono parlare dei giudici dei loro processi solo negli atti di impugnazione e sempre, anche nella critica più netta, con il rispetto che la parte, anche la parte pubblica, deve al giudice terzo e imparziale.